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giovedì 1 agosto 2013

Quei 160 milioni di euro pubblici che ai nuovi impianti inquinanti

Quei 160 milioni di euro pubblici che ai nuovi impianti inquinanti

(Fonte:QualEnergia-Giulio Meneghello)
 
 
 
 
Circa 160 milioni di euro di fondi pubblici che sarebbero dovuti servire a ridurre le emissioni di CO2, paradossalmente finiranno come rimborsi agli impianti inquinanti entrati in esercizio negli ultimi quattro anni. Oltre 51 milioni andranno alla sola centrale a carbone Enel di Torrevaldadiga Nord, a Civitavecchia, tra i maggiori emettitori di CO2 in Italia, nonché responsabile con il suo inquinamento di circa 45 morti premature l'anno (secondo uno studio commissionato da Greenpeace Italia all’istituto indipendente di ricerca olandese SOMO).

All'Ilva di Taranto di milioni ne andranno oltre 3, e la lista dei beneficiati continua (comprendendo anche impianti meno impattanti, come i cicli combinati a gas): Sorgenia riceverà 25 milioni spalmati su 3 impianti, Ergosud 9 milioni, Eni Power quasi 7 milioni, Tirreno Power 4,4 milioni e decine di altre aziende avranno somme minori.

Gli importi, stabiliti con due delibere emesse dall'Autorità per l'Energia lo scorso 26 luglio (vedi allegati in basso), si riferiscono ai rimborsi dovuti ai cosiddetti 'nuovi entranti' italiani nel sistema ETS, il meccanismo europeo di scambio delle emissioni. Soldi che sono garantiti agli impianti entrati in esercizio negli ultimi anni nonostante la riserva loro destinata fosse esaurita: grazie a un intervento del governo Berlusconi del 2010, infatti, i fondi verranno presi dai proventi della vendita all'asta dei permessi ad emettere. Proventi che, come anticipato, dovrebbero in teoria essere destinati, oltre che a risanare le casse statali, a sostenere investimenti per ridurre la CO2.

Come è successo? La storia ha inizio nel 2006, mentre ci si preparava alla fase 2 dell'ETS, iniziata dal 2008 e terminata con il 2012. Come sappiamo, in quella fase la quasi totalità dei permessi ad emettere venivano assegnati gratuitamente agli impianti che rientravano nello schema, ossia centrali termoelettriche e altre industrie ad alte emissioni. Quante quote gratuite potevano essere assegnate agli impianti italiani e quali soggetti ne avessero diritto venne stabilito con il Piano Nazionale di Assegnazione delle quote di CO2 2008-2012 (PNA), approvato ufficialmente il 18 dicembre 2006 dai ministeri di Ambiente e Sviluppo Economico del secondo governo Prodi, presieduti rispettivamente da Alfonso Pecoraro Scanio e Pierluigi Bersani.

Proprio in quel piano c'è il seme della distorsione che porta ai paradossali rimborsi deliberati nei giorni scorsi. Non riuscendo a ottenere dall'Europa di poter assegnare un volume di permessi ad emettere tanto grande quanto quanto richiesto, infatti, gli estensori del Piano hanno deciso – con ogni probabilità per non ledere gli interessi degli impianti già in esercizio - di sacrificare la quota di permessi gratuiti da accantonare per gli impianti che sarebbero stati costruiti negli anni seguenti, appunto i cosiddetti nuovi entranti.

La riserva per i nuovi entranti, come quasi certamente sapeva anche chi ha scritto il Piano, è risultata dunque sottodimensionata rispetto alle centrali e alle industrie costruite negli anni successivi: nel primo anno della fase 2 delll'ETS, il 2008 era già stata esaurita e ovviamente anche negli anni seguenti - 2009, 2010, 2011 e 2012 – non ci sono stati abbastanza permessi gratuiti risparmiati da assegnare.

I nuovi entranti hanno così dovuto acquistare di tasca loro i crediti, ma per loro il danno non è stato grave: come forse gli autori del PNA 2008-2012 già immaginavano sarebbe successo, in soccorso è arrivata la mano pubblica nelle vesti di un decreto emanato dal governo Berlusconi nel 2010.

È il Decreto Legge n.72, del 20 maggio 2010, (convertito con la Legge 19 Luglio 2010, n°111) che identifica un meccanismo di rimborso per le installazioni che non hanno ricevuto quote di emissione di CO2 a titolo gratuito a causa dell’esaurimento della riserva per i nuovi entranti. All'articolo 2, comma 3 del provvedimento - a firma Berlusconi (ministro ad interim dello Sviluppo Economico), Prestigiacomo (Ambiente), Matteoli (Infrastrutture) e Tremonti (Economia) – si stabilisce che i soldi da dare ai nuovi entranti – il rimborso comprensivo di interessi di quanto speso per acquistare i crediti - vengano presi dai proventi della vendita all'asta delle quote di CO2 non assegnate gratuitamente.

Da lì le delibere emanate nei giorni scorsi dall'Aeeg, che altro ruolo non ha se non stabilire gli importi in base alle emissioni degli impianti in questione e alle quotazioni della CO2 in quegli anni: 144 milioni di rimborsi relativi al 2012, 10,8 al 2011, 3,5 al 2010, circa un milione al 2009 e 41mila euro al 2008.

Ecco come è successo che 160 milioni del ricavato della vendita all'asta dei permessi - che dovrebbe essere diviso tra entrate erariali e attività per ridurre la CO2, come ad esempio finanziare il Fondo rotativo per Kyoto - andrà invece agli impianti inquinanti costruiti negli ultimi anni.

Come commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club: “In questo modo si è svuotato di significato un meccanismo nato per ridurre le emissioni. Lo si è trasformato in un incentivo al contrario che paradossalmente rimborsa i grandi emettitori. Se si guarda al caso della centrale Enel di Civitavecchia non c'è bisogno di aggiungere altro”.

martedì 9 luglio 2013

Energia, le rinnovabili supereranno il gas. Seconda fonte elettrica dopo il carbone

Energia, le rinnovabili supereranno il gas. Seconda fonte elettrica dopo il carbone 

 (Fonte:LaRepubblica.it-Antonio Cianciullo)
 
 
 
 
Maria van der Hoeven, direttrice dell’Iea (International Energy Agency), è arrivata a Roma con un messaggio molto chiaro che esporrà questa mattina in un incontro alla Farnesina: entro il 2016 a livello globale le rinnovabili supereranno il gas e doppieranno il nucleare diventando la seconda fonte elettrica dopo il carbone. E lo scenario non cambia guardando un po’ più avanti o un po’ più indietro. Nel 2012 l’elettricità prodotta dalle rinnovabili è stata superiore a quella consumata in Cina. Nel 2018 l’energia pulita aumenterà del 40% arrivando a coprire quasi un quarto del totale della produzione elettrica.
Non basta. Il rapporto appena reso pubblico dall’Iea (Medium-Term Renewable Energy Market Report) precisa che all’interno di questo 25% la quota delle nuove rinnovabili (quelle più innovative, escludendo l’idroelettrico tradizionale) continua a crescere: dal 2% del 2006 è passata al 4% del 2008 e arriverà all’8% nel 2018.

Maria van der Hoeven entra anche nel merito della polemica sulle misure di sostegno al modello low carbon spiegando che si può fare molto con poco a patto di non cambiare idea ogni 6 mesi mettendo in difficoltà le imprese: “Molte rinnovabili non hanno più bisogno di alti incentivi. Ma hanno ancora bisogno di politiche di lungo termine che consentano la formazione di un mercato affidabile e di una cornice di regole compatibile con gli obiettivi sociali”. E anche il poco necessario può essere a costo zero a patto di non regalare soldi a chi inquina: “A livello globale i sussidi ai combustibili fossili restano 6 volte più alti degli incentivi alle rinnovabili”.

Sapersi inserire con successo nelle filiere energetiche emergenti sarà determinate per le economie dei paesi di antica industrializzazione perché la pressione dei paesi di recente sviluppo è sempre più forte: sbagliare significare rischiare di essere tagliati fuori da un settore strategico. Due terzi della crescita delle rinnovabili nei prossimi 5 anni saranno concentrati nell’area non Ocse. Ma la crescita procede ancora tutto campo e lascia la gara aperta.

Dai dati IEA risulta che idroelettrico, geotermia e impianti di biomasse di grande taglia sono già competitivi nei luoghi in cui queste risorse abbondano. L’eolico tiene testa ai nuovi impianti a carbone o a gas in molto mercati e in particolare in paesi come l’Australia, la Nuova Zelanda, la Turchia, e in alcune aree del Cile e del Messico. Il fotovoltaico risulta vincente, se si compara il costo del consumo sul posto ai prezzi dell’energia distribuita in rete, in Spagna, Italia, Germania del Sud, California del Sud, Australia e Danimarca.

Nel capitolo di approfondimento sul nostro Paese, il rapporto precisa che le rinnovabili hanno fornito nel 2012 il 31% della produzione elettrica lorda: con sole e vento che si aggiudicano oltre un terzo di questa quota (6% fotovoltaico e 4,5% eolico). Ma, avverte la Iea, lo sviluppo delle rinnovabili in Italia è legato alla scioglimento di due nodi. Il primo è la rete di trasmissione, che deve essere fluidificata in particolare per collegare meglio Nord e Sud e permettere il migliore sfruttamento del potenziale eolico. Il secondo è il superamento delle difficoltà che frenano il consumo sul posto del fotovoltaico: “L’autoconsumo sarà un fattore chiave per la distribuzione nel medio termine”.

giovedì 27 giugno 2013

Produzione rinnovabili 2016: più del gas, il doppio del nucleare

Produzione rinnovabili 2016: più del gas, il doppio del nucleare

(Fonte:QualEnergia.it)
 
 
 
 
 
Le rinnovabili sono le fonti che stanno crescendo più rapidamente e nei prossimi anni la crescita accelererà: entro il 2016, a livello mondiale, la produzione elettrica delle fonti pulite supererà quella del gas e sarà il doppio di quella del nucleare. Le rinnovabili saranno così seconde solo al carbone. A prevederlo è l'ultimo Medium-Term Renewable Energy Market Report della International Energy Agency uscito ieri (executive summary e slide allegati in basso).

Grazie ai costi in calo e al forte sviluppo anche nei mercati emergenti, almeno dal punto di vista dell'aumento dell'energia verde, siamo così sulla giusta traiettoria per contenere il riscaldamento globale entro i 2 °C: la crescita prevista infatti è in linea con lo scenario Energy Technology Perspectives 2012 disegnato dalla stessa IEA. Ma non bisogna sedersi sugli allori: tagli agli incentivi e incertezza normativa potrebbero rallentare lo sviluppo, avverte l'Agenzia.

Da qui al 2018, si legge nel report, la produzione elettrica da rinnovabili crescerà del 40%, il 6% all'anno, passando da 4.860 TWh a 6.850 Twh e dal 20 al 25% della domanda mondiale. La potenza installata salirà 1.580 GW del 2012 a 2.350 GW nel 2018:



La crescita prevista per i 5 anni a venire è dunque del 50% più grande di quella vissuta nel periodo 2006-2012 (grafico sotto) La IEA rivede al rialzo anche la previsione del Medium-Term Renewable Energy Market Report dell'anno scorso: le rinnovabili al 2017 produrranno 90 TWh in più di quanto si ipotizzava 12 mesi fa.



In aumento, anche se con tassi minori rispetto all'elettricità rinnovabile, l'uso dei biocarburanti nei trasporti: +25% dal 2012 al 2018 e dal 3,4 al 3,9% della domanda globale di carburante per trasporto. Cresceranno del 24% nello stesso periodo le rinnovabili termiche (biomasse tradizionali escluse) che arriveranno a soddisfare il 10% della domanda di calore mondiale, dall'8% attuale.

Se l'idroelettrico continua a fare la parte del leone nella produzione elettrica, ad aumentare più rapidamente saranno le fonti “nuove”. Le rinnovabili idro escluso raddoppieranno infatti la loro quota sulla produzione mondiale, passando dal 4% del 2012 all'8% nel 2018. Una tendenza che vediamo già nei dati del 2012, quando l'aumento anno su anno della produzione delle rinnovabili idroelettrico escluso è stata il doppio di quella delle rinnovabili indoelettrico incluso: 16% contro 8,2%. Lo sviluppo delle fonti pulite sarà poi sempre più diversificato geograficamente: i paesi non OECD conteranno per due terzi della crescita prevista. In Europa invece lo sviluppo rallenterà (vedi grafico) ma comunque le nuove installazioni da rinnovabili peseranno per il 60% del totale e saranno il triplo di quelle a gas.



A spingere la crescita sarà il calo dei prezzi. Se geotermia e idroelettrico, come sappiamo, sono già competitive rispetto alle fonti fossili e al nucleare, anche sole e vento in certi mercati già ora possono reggere il confronto senza incentivi. L'eolico a terra ad esempio in alcune situazioni ha raggiunto costi del kWh (LCOE) che lo rendono più economico delle nuove centrali a fonti fossili: sta già succedendo in Brasile, Australia, Turchia e Nuova Zelanda, mentre in altri mercati come Sud Africa, Cile e Messico ci siamo quasi. Il fotovoltaico invece è già l'opzione energetica più conveniente nei paesi produttori di petrolio, se si considera l'opportunità di vendere il greggio così risparmiato. La grid parity, cioè la convenienza a prodursi l'elettricità con il FV rispetto ad acquistarla dalla rete, poi, riporta la IEA, è già raggiunta in Spagna, Italia, Germania meridionale, California e Danimarca.



Le prospettive, insomma, sono buone ma le energie pulite, seppur sempre più competitive, restano vulnerabili all'incertezza normativa. Come ricorda la direttrice esecutiva della IEA Maria van der Hoeven: “Diverse fonti rinnovabili non hanno più bisogno di incentivi. Ma hanno ancora bisogno di politiche a lungo termine che permettano di avere un mercato stabile e prevedibile e una cornice normativa compatibile con gli obiettivi della società. Mentre i sussidi alle fonti fossili rimangono 6 volte quelli delle rinnovabili”.

venerdì 31 maggio 2013

La shale revolution è una bolla, parola di guru del trading

La shale revolution è una bolla, parola di guru del trading

(Fonte:QualEnergia.it)

 
 
 
 
 
Quella dello shale gas e dello shale oil è solo una bolla temporanea e non, come alcuni sostengono, una rivoluzione permanente che regalerà al mondo un futuro di combustibili fossili a basso prezzo. Su queste pagine lo avevamo già scritto, ma questa volta ad affermarlo, contraddicendo l'entusiasmo di molti, è un guru del trading di petrolio e gas, Andy Hall, le cui scommesse sul petrolio gli sono valse negli anni 2000 un salario da 100 milioni di dollari presso Citigroup.

Il rapido declino dell'output verificato in alcuni pozzi shale "significa probabilmente che l'abbondanza di risorse è solo temporanea", scrive Hall in una lettera finita nelle mani del Financial Times e destinata agli investitori di Astenbek, l'hedge found da 4,5 miliardi di dollari che Hall gestisce.

Quello del gas e del petrolio da scisti è un tema caldo nel mondo delle fossili. La rivoluzione shale, che sta rendendo gli Usa esportatori netti di gas e si prevede, entro il 2030, anche di petrolio, preoccupa l'Opec, i cui ministri sono riuniti questa settimana a Vienna per uno dei due incontri annuali dell'organizzazione. Il timore è che i nuovi combustibili fossili non convenzionali spinga in basso i prezzi del barile sul lungo termine.

Questa è ad esempio l'opinione del pundit del settore Dennis Gartman, che pubblicamente ha dichiarato che se fosse nei panni dei paesi Opec cercherebbe di vendere molto e subito. Non la pensa così invece l'Arabia Saudita, che non sembra temere la shale revolution (che pure sta già facendo subire cali dell'export verso gli Usa a membri Opec come Nigeria e Angola) e probabilmente nemmeno l'Opec nel complesso, che ha deciso di mantenere inalterato a 30 milioni di barili al giorno il proprio obiettivo di produzione. Ora si scopre che questa visione, cioè che gli idrocarbutri da scisti potranno influire poco sul futuro delle fossili, è condivisa anche da una personalità con un certo intuito come Hall, che ha fatto i soldi scommettendo che nel corso degli anni 2000 il barile sarebbe salito da meno di 20 dollari ad oltre 100.

Le motivazioni per cui shale gas e shale oil sono un fenomeno temporaneo, spiega Hall agli investitori del suo fondo, sono tecniche: ogni perforazione dà accesso solo a una piccola sacca di gas e petrolio, anziché a vaste riserve. Per questo, nonostante i pozzi siano inizialmente prolifici, la produzione declina rapidamente: per mantenerla a un livello costante bisogna trivellare di continuo nuovi pozzi, cosa impossibile da fare senza prezzi del barile sufficientemente alti.

Insomma il guru del trading sembra condividere l'analisi fatta dal report del Post Carbon Insitute di cui avevamo parlato qualche mese fa. In quello studio si riportava che i maggiori 5 pozzi di shale gas Usa attualmente in produzione hanno tassi di declino della produttività dall'80 al 95% sui primi 36 mesi e che in generale dal 30 al 50% della produzione di gas da scisti deve essere rimpiazzata ogni anno con nuovi pozzi: per mantenere il livello si dovrebbero trivellare 7.200 nuovi pozzi l'anno. Servirebbe cioè un investimento di 42 miliardi di dollari l'anno: una cifra nettamente superiore ai ricavi dalle vendite, che sono di 33 miliardi l'anno. Stesso discorso per il petrolio da scisti, detto anche tight oil o shale oil: qui 2 pozzi coprono l'80% della produzione Usa e hanno tassi di declino della produttività dall'81 al 90% sui primi 24 mesi. Sull'argomento ricordiamo anche un documento di fine 2012 del Fondo Monetario Internazionale che collegava domanda e offerta di petrolio (con dentro la bolla, così chiamata dal FMI, dello shale oil) al rischio di una nuova fase recessiva molto acuta.

Gli analisti del PCI in un altro report spiegavano anche il lato finanziario della questione, ossia perché c'è ancora chi dipinge lo shale come un buon investimento, nonostante i dati di cui sopra. Nel 2011, si spiega, le operazioni di fusione e acquisizione legate agli idrocarburi da scisti a Wall Street hanno raggiunto il volume di 46,5 miliardi di dollari e sono diventate il più grande centro di profitto per diverse banche d'investimento. Questo è avvenuto nonostante i pozzi in questo periodo non abbiano mantenuto le promesse in termini di resa: gli operatori hanno sovrastimato le riserve di shale gas e shale oil dal 100 al 500% rispetto alla produzione effettivamente registrata.

Per portare la produzione ai livelli attesi si è spinto a trivellare ancora di più, arrivando a un eccesso di offerta, che ha spinto i prezzi tanto in basso da essere quasi insostenibili: come detto, per mantenere la produzione servirebbero più investimenti di quanto si ricava dalla vendita. I prezzi bassi hanno aperto la porta ad altre fusioni e acquisizioni, che hanno fruttato miliardi alle banche d'investimento. Molti pozzi sono stati venduti a grandi dell'energia ma si sono anche messi in circolazione strumenti finanziari complessi come i VPP (volumetric production payments) spesso piazzati, assieme ad altri asset su riserve non provate, a investitori che - a differenza di Andy Hall - hanno scarsa dimestichezza con le complesse dinamiche della produzione da fossili, come i fondi pensione.

Una dinamica che ricorda in maniera preoccupante quella che ha innescato la crisi: la corsa nel 2007 a scaricare ad altri i famigerati subprimes sui mutui. Titoli che altro non erano che promesse che non potevano essere mantenute, proprio come quella che i dati sul declino della produzione dei pozzi ci mostrano essere quella del gas e del petrolio da scisti.

martedì 28 maggio 2013

Gas, prezzo sul mercato spot e bollette meno care

Gas, prezzo sul mercato spot e bollette meno care

(Fonte:QualEnergia.it-Giulio Meneghello)

 
 
 
Buone notizie per i consumatori sul fronte gas. Grazie alla riforma delle modalità con cui l'Autorità stabilisce il prezzo della materia prima, le bollette hanno già visto una riduzione del 4,2% ad aprile. La seconda fase della riforma, approvata di recente e i cui effetti si produrranno da ottobre, dovrebbe portare il risparmio complessivo al 7%: circa 90 euro in meno sulla bolletta media.

Finalmente le dinamiche che stanno portando il prezzo del gas sui mercati a diminuire, si trasferiranno anche nelle bollette degli italiani. Per semplificare: fino a ora il prezzo del gas era stabilito tenendo come riferimento contratti a lungo termine, come i famigerati take-or-pay stipulati da Eni con i fornitori russi e algerini, particolarmente sconvenienti rispetto al contesto attuale.

Dal primo ottobre, invece, per il calcolo della materia prima si farà riferimento solamente ai prezzi spot del mercato all'ingrosso, cioè quelli del momento, stabiliti in borsa da domanda offerta. Una mossa che farà abbassare il prezzo del gas stabilito dall'Autorità, la componente energia che ci troviamo in bolletta. I take-or-pay a lungo termine, legati all'andamento del prezzo del petrolio, infatti, prevedono prezzi più alti di quelli che si hanno sul mercato spot, dove c'è più concorrenza e si riflette il calo della domanda attuale e soprattutto l'aumento dell'offerta dovuto al boom americano dello shale gas, il gas non convenzionale estratto dalle rocce con la fratturazione idraulica.

Il nuovo metodo è stato approvato dopo un approfondito monitoraggio svolto dall'Autorità sul mercato all'ingrosso, sulle evoluzioni dei contratti di approvvigionamento e sui trend regolatori negli altri Paesi Ue e sulla base di un'Istruttoria Conoscitiva sulla struttura di costo del mercato della vendita al dettaglio del gas naturale, conclusa lo scorso ottobre. L'istruttoria ha evidenziato, fra l'altro, lo sviluppo, dopo il 2011, anche nel nostro Paese di un mercato all'ingrosso che inizia a produrre i primi benefici che, attualmente, sono solo parzialmente trasferiti ai clienti finali.

Dal primo ottobre appunto questi benefici dovrebbero riflettersi maggiormente sulle bollette visto che per il calcolo della materia prima gas si farà riferimento al 100% ai prezzi di mercato spot e non più anche ai contratti di lungo periodo, che sono stati il principale riferimento nella formula di aggiornamento della materia prima fino all'aprile 2012 quando il loro 'peso' è stato ridotto al 95% e, successivamente, per effetto della prima fase della riforma gas dell'Autorità sono stati portati all'80% dall'aprile 2013.

In attesa che la Borsa gas del Gestore dei mercati energetici (GME) completi il suo avvio operativo con la definizione dei prodotti di riferimento e una liquidità significativa, resteranno come riferimento le quotazioni dell'hub olandese TTF (Title Transfer Facility) attualmente già utilizzate per la quota del 20% di prezzi di mercato spot.

Altri cambaimenti di rilievo riguardano la riduzione delle componenti a copertura del trasporto e dello stoccaggio della materia prima e l'introduzione di specifiche componenti di gradualità per tutti i venditori, per consentire l'adeguamento delle politiche di approvvigionamento e la copertura dei rischi, oltre che accelerare il trasferimento ai clienti di corretti segnali di prezzo della materia prima.

Ulteriore novità l'introduzione di un meccanismo incentivante, prevenendo un'apposita componente, per promuovere la rinegoziazione dei contratti di lungo periodo, imponendo che i benefici delle rinegoziazioni (in termini di riduzioni di prezzo) siano tempestivamente trasferiti ai clienti finali, ed in particolare nel momento in cui i prezzi dei contratti di lungo periodo dovessero risultare inferiori a quelli dei mercati spot.

Una riforma che sembra piacere anche alle associazioni dei consumatori: “è un passo verso la reale liberalizzazione a beneficio degli utenti - commenta Pietro Giordano, presidente di Adiconsum – come per la benzina con le pompe bianche se i fornitori si svincolano dai contratti a lungo termine e comprano dal miglior offerente, il risparmio si riflette sul consumatore”. Soddisfatto anche Mauro Zanini di Federconsumatori che però avverte: “non bisognerà però abbassare la vigilanza, per evitare che sul mercato spot, in caso di aumento della domanda e diminuzione dell'offerta, non avvengano fenomeni speculativi”.

lunedì 27 maggio 2013

Il clima ostile alle energie rinnovabili e la forte lobby europea del fracking gas

Il clima ostile alle energie rinnovabili e la forte lobby europea del fracking gas

(Fonte:QualEnergia.it-Gianni Silvestrini)
 
 
 
 
L’attuale contesto per il comparto delle rinnovabili e della efficienza è delicato, anche se non privo di interessanti opportunità. Vanno crescendo le forze che ritengono che gli incentivi vadano centellinati o che addirittura si debba intervenire con misure retroattive, un’azione che rischierebbe di essere incostituzionale e che lederebbe la credibilità del nostro paese.

Le motivazioni addotte sono due: un costo eccessivo delle bollette per gli utenti finali e l’impatto sul mondo delle aziende energetiche in difficoltà per il calo della domanda e la competizione di nuovi attori, come l’oltre mezzo milione di cittadini e imprese che posseggono impianti fotovoltaici.

In realtà, anche a livello europeo spira un’aria non proprio rassicurante. Il documento “Energy challenges and policy”, predisposto per il Consiglio Europeo del 22 maggio parte dalla constatazione della difficoltà delle imprese europee rispetto a quelle statunitensi che godono di prezzi del gas molto inferiori grazie agli effetti negli ultimi anni della produzione di gas da fracking.

Date queste premesse, il documento apre all’introduzione del fracking anche in Europa, pone l’accento sulla competitività e sui prezzi dell’energia, mentre si avverte una minore attenzione sulle questioni climatiche. Va ricordato che la Confindustria europea, BusinnessEurope, ha svolto una forte azione di lobby proprio su questi temi, come già aveva fatto con successo durante le discussioni sull’Emissions Trading, e sembra essere riuscita ad influenzare la riunione dei capi di Stato riuniti a Bruxelles.

Per quanto riguarda la tecnica del fracking, è comunque impensabile la riproposizione del successo americano. Il contesto territoriale, geologico e la densità abitativa sono infatti molto differenti e già sono scattate mobilitazioni contro un processo che presenta notevoli implicazioni ambientali.

Potrebbe invece avere un impatto l’importazione di gas liquefatto dagli Usa, previsto al momento per il Giappone e Regno Unito, che darebbe maggiore potere contrattuale agli europei nelle trattative con i tradizionali fornitori di gas come la Russia o l’Algeria.

Peraltro, si deve tener conto che i costi dell’estrazione del fracking gas aumenteranno. Visti i rapidi tempi di esaurimento dei pozzi di shale gas, occorrono infatti investimenti colossali. E’ stato calcolato che per mantenere l’attuale livello di estrazione negli Usa occorrerebbero investimenti per 42 miliardi $/anno, a fronte di ricavi che al momento sono di 33 miliardi $/anno.

L’impatto immediato della rivoluzione statunitense dello shale gas è però, paradossalmente, di segno completamente diverso per l’Europa. Il calo del prezzo del metano e le nuove regole per le inquinanti centrali a carbone Usa stanno infatti inducendo un forte cambiamento del mix di combustibili nella generazione elettrica. Nel 2012 la produzione dalle centrali a carbone statunitensi è calata dell’11,6%, sostituita da una maggiore produzione da gas. Di conseguenza grandi quantità di carbone a basso costo si sono riversate dalle miniere statunitensi in Europa, dove nel frattempo il mercato dell’Emissions Trading si era inceppato facendo crollare le quotazioni di una tonnellata di CO2 al livello del prezzo di un paio di capuccini, mettendo così fuori gioco i cicli combinati a gas.

Questo spiega come, paradossalmente, in Germania accanto ad una forte crescita delle rinnovabili si sia registrato anche un incremento dell’uso del carbone e un calo dell’impiego del metano. Grazie al boom fotovoltaico, peraltro sono cresciute anche le esportazioni elettriche, malgrado la chiusura parziale del nucleare.

Tornando alle inquietudini europee, fortunatamente il tema dell’efficienza resta centrale, anzi acquista una importanza ancora maggiore. Alti prezzi rendono infatti più interessanti gli interventi per ridurre consumi.

Diventa quindi molto importante il processo di recepimento della Direttiva sull’efficienza che vedrà impegnato il nostro Governo nei prossimi mesi. E decisivo il rifinanziamento, questa settimana, delle detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica degli edifici.

mercoledì 22 maggio 2013

Fughe di metano, come il gas fa male al clima

Fughe di metano, come il gas fa male al clima

(Fonte:Ecqualogia.it)

 
 
Il gas fa più male al clima di quanto comunemente si pensi. Colpa delle perdite: nel processo di estrazione e trasporto finisce in atmosfera dal 2 al 7% del metano, gas con potere climalterante 33 volte superiore a quello della CO2. Particolarmente negativo il bilancio dello shale gas, soggetto a consistenti fughe già nell'estrazione tramite fracking.

Con il nucleare in crisi e le rinnovabili ancora minoritarie, molti hanno individuato nel gas la fonte di transizione per decarbonizzare il sistema energetico. Una fiducia galvanizzata dal recente boom dello shale gas, il gas non convenzionale estratto dalle rocce attraverso il fracking. Il gas, se guardiamo solo al processo di combustione, è indubbiamente la fonte fossile con meno emissioni: una centrale a gas emette grosso modo la metà della CO2 rispetto ad una a carbone. Se si guarda all'intero ciclo di vita dell'energia da gas però emerge un aspetto quasi sempre trascurato che ridimensiona di molto i vantaggi del gas: quello delle fughe di metano in atmosfera.

Ce lo ricorda un report del World Resources Institute, fresco di pubblicazione (vedi allegato in basso). Sia nel processo di estrazione, che durante il trasporto del gas, si spiega, in atmosfera finiscono quantità rilevanti di metano: circa il 2-3% della produzione totale, ma alcuni studi (il report propone una sorta di censimento della letteratura scientifica esistente) parlano di un impressionante 7%.

Emissioni che gravano molto sul clima, specialmente nei primi 20 anni: il metano infatti ha un potere climalterante decine di volte superiore a quello della CO2, anche se ha un tempo di permanenza in atmosfera pari a un decimo di questa. Per l'esattezza, secondo studi recenti, il metano ha un potere climalterante di 33 volte superiore a quello della CO2 sui 100 anni e 105 volte maggiore sui 20 anni (il quarto rapporto IPCC del 2007 parla di un potere riscaldante sui 100 anni superiore di 21 volte alla CO2, ma la proporzione fatta sarebbe superata perché non tiene conto dell'interazione con gli aereosol).

Assumendo conservativamente che le fughe siano solo il 2% della produzione, lo studio del WRI, riferito al mercato USA, le quantifica in 6 milioni di tonnellate di metano l'anno che finiscono in atmosfera: un contributo al disastro climatico pari a quello delle emissioni di 120 milioni di auto. Tra le altre cose uno spreco (sempre parlando dei soli Stati Uniti) da 1,5 miliardi di dollari l'anno. Una perdita attribuibile in parte a fughe nei gasdotti che si potrebbero riparare, con vantaggio economico anche dei produttori: se non lo si fa, si spiega, oltre che per un vuoto legislativo, è perché i gasdotti non appartegono ai produttori. Bisogna rimediare subito è la bottomline del report: limitare le perdite di metano potrebbe essere uno dei provvedimenti più efficaci per ridurre le emissioni.
Se le perdite nei gasdotti possono, entro un certo limite, essere tappate, però, più difficile è intervenire su quelle in fase di estrazione. Questo è un buon motivo, che va ad aggiungersi a molti altri, per dubitare della sostenibilità ambientale dello shale gas. Oltre ad avere impatti ambientali molto pesanti come il depauperamento, l'inquinamento delle falde idriche e il rischio di innesco di attività sismiche, il fracking, la procedura per estrarre il gas non convenzionale dagli scisti iniettandovi acqua e sostanze chimiche ad altissima pressione, causa fughe di gas.

Ricerche recenti citate nello studio WRI e condotte attorno a pozzi di shale gas attivi in Colorado ci dicono che nel proceso di estrazione tramite fracking circa il 4% del gas estratto finisce in atmosfera. Anche se gran parte della letteratura scientifica in materia stima che le emissioni dello shale gas siano paragonabili a quelle del gas convenzionale, questi dati potrebbero confermare quanto sostenuto da uno studio del 2011 della Cornell University, che conclude che l'impronta dello shale gas in termini di emissioni su un periodo di 20 anni sia dal 22 al 43% più grande di quella del gas convenzionale, mentre sui 100 anni - per via della permanenza relativamente breve del metano in atmosfera - sia mggiore dal 14 al 19%.

Se così fosse lo shale gas per il clima non sarebbe migliore di petrolio e carbone: rispetto al petrolio, sui 20 anni, l'impatto sarebbe dal 50% a 2,5 volte più pesante e sui 100 anni da equivalente a peggiore del 35%. Rispetto al carbone, invece, sul periodo dei 20 anni, avrebbe un'impronta climatica dal 20% a oltre il doppio più grande, mentre sui 100 anni l'impatto sul clima sarebbe sostanzialemente simile.

martedì 23 aprile 2013

Syngas solare: se il sole aiuta le centrali a gas

Syngas solare: se il sole aiuta le centrali a gas

(Fonte:Ecqualogia.it)

 
 
Un sistema solare applicabile alle centrali a gas esistenti che fa risparmiare il 20% del gas “iniettando” l'energia nel combustibile. Obiettivo è far produrre le centrali a gas cui viene aggiunto il syngas solare a 0,06 $/kWh. Il combustibile ottenuto da gas e sole potrebbe essere usato anche per ottenere benzina e gasolio più puliti?

 
Un sistema solare che fa risparmiare soldi ed emissioni alle centrali a gas “iniettando” l'energia dell'astro nel combustibile. Un nuovo dispositivo uscito dal Pacific Northwest National Laboratory del DoE Usa potrebbe portare benefici a una categoria di impianti, quelli a gas, che finora hanno avuto dovuto subire l'impatto della diffusione delle rinnovabili. Quando il sole è alto, infatti, questa nuova tecnologia permetterebbe alla centrale di risparmiare circa il 20% del gas, a parità di energia prodotta.
Si tratta di un sistema a concentrazione solare che trasforma l'energia del sole e il gas naturale in un combustibile molto più ricco di energia, detto syngas, che può essere usato dalla centrale per produrre elettricità. “In questo modo si permette alla centrale di usare meno gas per produrre la stessa quantità di elettricità - spiega l'ingegner Bob Wegend che coordina il progetto – e allo stesso tempo il sistema permette di ridurre le emissioni della centrale a un costo competitivo con le fonti fossili tradizionali”. Negli Usa, che stanno puntando sempre di più sul gas, questa innovazione, adatta soprattutto alle centrali negli Stati assolati del Sud-ovest inizia a destare un certo interesse: secondo il DoE al 2020 il gas contribuirà per il 27% della generazione elettrica, mentre in Italia la quota del gas nel mix è oggi del 40% circa.

Il sistema ideato al PNNL, relativamente poco ingombrante (vedi foto, clicca per ingrandire), può essere installato su centrali già esistenti, rendendole, di fatto, delle centrali ibride. E' modulare e si adatta a qualsiasi taglia di impianto esistente; ad esempio per una centrale da 500 MW servirebbero circa 3mila concentratori solari.
Come detto, il sistema usa il calore del sole – raccolto e concentrato tramite un sistema di specchi e lenti - per trasformare il gas in syngas, combustibile che contiene idrogeno e monossido di carbonio e che grazie all'alto contenuto energetico permette alla centrale di risparmiare il 20% del gas a parità di produzione.

Cuore della macchina un reattore chimico che ha diversi scambiatori di calore ed è percorso da stretti canali. La luce del sole concentrata scalda il gas, facendolo salire per i canali del reattore, che contiene un catalizzatore capace di far trasformare il gas in syngas. Nello scambiatore di calore ci sono altri canali, molto più stretti, larghi circa il doppio di un capello che servono per poter riusare il calore “avanzato” dalla reazione chimica, aumentando così l'efficienza del processo. I test condotti hanno mostrato che in questo modo si riesce a convertire in energia chimica immagazzinata nel syngas più del 60% dell'energia solare raccolta dalla parabola.
Ora al PNNL stanno lavorando per aumentare ulteriormente l'efficienza, ma soprattutto progettare un design che permetta la commercializzazione a prezzi ragionevoli. L'obiettivo (che si stima di raggiungere al 2020) è far sì che l'energia prodotta da una centrale a gas equipaggiata con il sistema solare costi meno di 0,06$/kWh. Raggiungere questo costo vorrebbe dire rendere le centrali ibridate competitive con i più economici impianti tradizionali a fonti fossili, e avere emissioni nettamente ridotte.

In un futuro per ora non ancora vicino il syngas prodotto con il solare a concentrazione potrebbe anche essere usato nei trasporti: si può infatti trasformare in greggio sintetico, da cui raffinare gasolio e benzina, ma per ora il progetto del PNNL si limita all'integrazione con le centrali a gas.

lunedì 18 marzo 2013

Obama vuole finanziare le rinnovabili con il petrolio e il gas

Obama vuole finanziare le rinnovabili con il petrolio e il gas

(Fonte:GreenStyle.it-Peppe Croce)

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, cerca di mettere una pezza alla situazione venutasi a creare in seguito alla mancata riconferma degli sgravi fiscali alle industrie attive nelle energie rinnovabili. La proposta avanzata da Obama al Congresso è molto semplice: finanziare eolico, fotovoltaico e le altre energie verdi (ma anche le auto elettriche e le fuel cell) con i ricavi provenienti da gas e petrolio.

La cifra chiesta dal Presidente USA è consistente: 2 miliardi di dollari in dieci anni. Soldi che, però, sarebbero destinati a finanziare la ricerca e non la produzione vera e propria. Parlando all’Argonne National Laboratory, istituto che fa ricerca proprio sulle batterie per i veicoli elettrici, Obama ha detto:

Dopo anni che se ne discute, siamo pronti a prendere il controllo del nostro futuro energetico. Produciamo oggi più petrolio che negli ultimi 15 anni, ne importiamo meno che negli ultimi 20 anni.
Abbiamo raddoppiato la quantità di energia rinnovabile che produciamo da fonti come il vento e il sole, con decine di migliaia di buoni posti di lavoro prodotti.


Entro il 2020 gli USA, nelle intenzioni di Obama, dovrebbe raddoppiare l’energia elettrica rinnovabile prodotta dal sole, dal vento e con la geotermia. È però lo stesso Obama a mettere in guardia dai potenziali rischi derivanti dal taglio ai sussidi pubblici:

Uno dei motivi per cui mi sono opposto ai tagli è che essi non fanno differenza tra i programmi inutili e gli investimenti vitali. Non si taglia il grasso, si aggrediscono le ossa e i muscoli.
A causa dei tagli nei prossimi due anni non inizierà nessuna nuova ricerca. Non ci possiamo permettere di perdere queste opportunità mentre il resto del mondo corre avanti.

Ecco, allora, l’idea di prendere i soldi dall’industria petrolifera che, negli Stati Uniti, non è mai stata più in salute. Grazie al boom del fracking, infatti, gli USA potrebbero presto diventare indipendenti a livello energetico se non addirittura un esportatore netto di energia.

L’idea di finanziare l’energia del futuro tramite i ricavi di quella del passato, poi, potrebbe persino convenire alla lobby petrolifera americana: ne avrebbe un notevole ritorno d’immagine in un periodo in cui è osannata per i nuovi posti di lavoro creati, ma allo stesso tempo, indicata da ambientalisti, artisti e comitati locali come il male assoluto a causa dei forti rischi derivanti dall’uso del fracking.

Strategia energetica nazionale: la bufala del gas e petrolio italiano

Strategia energetica nazionale: la bufala del gas e petrolio italiano


(Fonte:Ecqualogia.it)
 
La strategia energetica nazionale non è solo timida con le rinnovabili ed arrendevole con il carbone, ma è anche millantatrice a proposito dei possibili aumenti di produzione nazionale di gas e petrolio.

Per il quasi ex ministro dello sviluppo, la produzione di idrocarburi nazionali deve naturalmente essere “sostenibile”. Cosa significhi non ce lo spiega esattamente, visto che si lamenta delle limitazioni alle trivellazioni off shore e bontà sua ci fa sapere che rinuncerà al facking. CIò che è invece del tutto intollerabile è la manipolazione dei dati. Parlando di idrocarburi, si dice che “le risorse potenziali ammontano a 700 Mtep“, valore ritenuto definito “largamente per difetto” poichè l’attività esplorativa si è ridotta al minimo nell’ultimo decennio. 
Non si sa bene dove il ministro (o i suoi spin doctors dell’ENI forse) si sia sognato tutto questo eldorado fossile. Il grafico in alto confronta la produzione storica con le aspettative strategiche, mostrando un’improbabile inversione di tendenz. Secondo i dati BP , le italiche riserve al 2011 erano valutate solo 265 Mtep (187 di petrolio e 78 di gas). Nel 2006 erano stimate ancora meno, 190 Mtep; gli ultimi sei anni hanno visto quindi un rialzo delle stime pari a 75 Mtep.


Secondo gli stessi dati del ministero dello sviluppo, nel 2006 le riserve erano pari a 244 Mtep (110 petrolio, 134 gas). Queste riserve sono “calcolate convenzionalmente come somma delle riserve (recuperabili) certe col 50% delle probabili e con il 20% delle possibili“.

La cifra di 700 Mtep include quindi il 100% delle probabili e il 100% delle possibili; un’operazione scorretta, sia dal punto di vista geologico che etico-politico. Non si può millantare ciò che non si ha! L’oscillazione delle cifre

Se fosse possibile estrarre tutte le riserve riportate da BP, avremmo una quantità di idrocarburi pari a 22 mesi di consumi italiani.

Non è meglio lasciare questi fossili dove sono e pensare al futuro?


mercoledì 27 febbraio 2013

Dal Gse nuove disposizioni per stoccaggio virtuale gas

Dal Gse nuove disposizioni per stoccaggio virtuale gas

(Fonte:ZeroEmission.it)
 
 
Posticipati i termini per la presentazione delle richieste per le misure transitorie fisiche e il giorno della prossima sessione d'asta, per permettere agli operatori di analizzare le mutate condizioni di mercato a seguito dei nuovi decreti sullo stoccaggio del gas.
Nuove disposizioni dal Gse per lo stoccaggio virtuale del gas. Per consentire ad ogni operatore di analizzare la convenienza economica delle nuove condizioni di mercato, in vista della recente pubblicazione dei decreti sullo stoccaggio del gas e della conseguente delibera 75/2013/R/gas del 21 febbraio 2013, il Gestore dei servizi energetici comunica che per i Soggetti investitori industriali, il termine ultimo di presentazione della richiesta di istanza per le misure transitorie fisiche dell’anno di stoccaggio 2013-2014 e della relativa garanzia con riferimento alla Quota Servizi è stato posticipato al 5 marzo 2013. Inoltre per gli Stoccatori Virtuali, la sessione d’asta relativa alla procedura concorrenziale di cui al Regolamento è stata posticipata al 7 marzo 2013.

Il Gse comunica inoltre che i Soggetti investitori industriali e gli Stoccatori Virtuali possono trasmettere le garanzie di cui all’articolo 7, comma 1, dei rispettivi Contratti anche se emesse da primaria banca italiana o da succursale italiana di banca estera con rating di lungo termine che non sia inferiore a BBB- se attribuito da Fitch Rating.

lunedì 7 gennaio 2013

Eolico supera gas e carbone nelle installazioni USA del 2012

Eolico supera gas e carbone nelle installazioni USA del 2012

 (Fonte:GeenStyle.it-Peppe Croce)
 
 
Eolico a gonfie vele negli USA. Secondo gli ultimi dati disponibili, aggiornati al 30 novembre 2012, nel corso dell’anno appena terminato negli Stati Uniti la nuova potenza elettrica da fonte eolica installata è stata pari a 6.519 MW, contro i 6.335 MW di nuove centrali elettriche a gas. Le centrali a carbone di nuova installazione sono state circa la metà.

I dati li ha forniti Ventrix, società specializzata nella fornitura di servizi e software per gli impianti di produzione di energia che è controllata dalla multinazionale svizzera ABB. Se non vi sarà un sorpasso nei dati dell’ultimo mese del 2012 sarà possibile definire l’anno scorso come “storico” per l’eolico americano.

Di certo a spingere l’eolico sono stati anche i sussidi statali: il cosiddetto Production Tax Credit (PTC), un incentivo di 2,2 centesimi di dollaro al KWh prodotto per un periodo di dieci anni. Incentivi che, tra le altre cose, sono stati confermati per almeno un altro anno con il recentissimo accordo tra Repubblicani e Democratici per evitare il Fiscal Cliff. Con lo stesso accordo, ricordiamo, sono stati salvati anche gli incentivi al fotovoltaico.

Secondo la American Wind Energy Association (AWEA), se non fossero stati confermati gli incentivi statali all’eolico, il settore avrebbe perso circa 37 mila posti di lavoro. Per questo l’associazione ha iniziato nei mesi scorsi una forte campagna di lobbying pro eolico e realizzato un video destinato all’americano medio con il quale chiedeva ai cittadini di pretendere dal proprio deputato di riferimento un voto positivo al PTC.
Il sorpasso del vento sul gas è significativo anche perché quest’ultimo è un’altra fonte fortemente incentivata negli Stati Uniti tanto che, come tutti ormai ben sanno, da alcuni anni a questa parte le estrazioni di gas si sono moltiplicate come i funghi su tutto il territorio americano. Gas molto spesso estratto con la tecnica del fracking e che, in ogni caso, sta sollevando forti dubbi sull’impatto di queste estrazioni sul clima.

Si conferma, invece, una tendenza ben visibile già da diversi mesi: le rinnovabili, da una parte, il “nuovo” gas dall’altra, stanno velocemente erodendo la quota di generazione elettrica dal carbone negli Stati Uniti. Si attendono ancora, invece, gli impatti dello sviluppo di gas e rinnovabili sulla produzione di energia da nucleare.