Fughe di metano, come il gas fa male al clima
(Fonte:Ecqualogia.it)
Il gas fa più male al clima di quanto comunemente si pensi. Colpa delle perdite: nel processo di estrazione e trasporto finisce in atmosfera dal 2 al 7% del metano, gas con potere climalterante 33 volte superiore a quello della CO2. Particolarmente negativo il bilancio dello shale gas, soggetto a consistenti fughe già nell'estrazione tramite fracking.
Con il nucleare in crisi e le rinnovabili ancora minoritarie, molti hanno individuato nel gas la fonte di transizione per decarbonizzare il sistema energetico. Una fiducia galvanizzata dal recente boom dello shale gas, il gas non convenzionale estratto dalle rocce attraverso il fracking. Il gas, se guardiamo solo al processo di combustione, è indubbiamente la fonte fossile con meno emissioni: una centrale a gas emette grosso modo la metà della CO2 rispetto ad una a carbone. Se si guarda all'intero ciclo di vita dell'energia da gas però emerge un aspetto quasi sempre trascurato che ridimensiona di molto i vantaggi del gas: quello delle fughe di metano in atmosfera.
Ce lo ricorda un report del World Resources Institute, fresco di pubblicazione (vedi allegato in basso). Sia nel processo di estrazione, che durante il trasporto del gas, si spiega, in atmosfera finiscono quantità rilevanti di metano: circa il 2-3% della produzione totale, ma alcuni studi (il report propone una sorta di censimento della letteratura scientifica esistente) parlano di un impressionante 7%.
Emissioni che gravano molto sul clima, specialmente nei primi 20 anni: il metano infatti ha un potere climalterante decine di volte superiore a quello della CO2, anche se ha un tempo di permanenza in atmosfera pari a un decimo di questa. Per l'esattezza, secondo studi recenti, il metano ha un potere climalterante di 33 volte superiore a quello della CO2 sui 100 anni e 105 volte maggiore sui 20 anni (il quarto rapporto IPCC del 2007 parla di un potere riscaldante sui 100 anni superiore di 21 volte alla CO2, ma la proporzione fatta sarebbe superata perché non tiene conto dell'interazione con gli aereosol).
Assumendo conservativamente che le fughe siano solo il 2% della produzione, lo studio del WRI, riferito al mercato USA, le quantifica in 6 milioni di tonnellate di metano l'anno che finiscono in atmosfera: un contributo al disastro climatico pari a quello delle emissioni di 120 milioni di auto. Tra le altre cose uno spreco (sempre parlando dei soli Stati Uniti) da 1,5 miliardi di dollari l'anno. Una perdita attribuibile in parte a fughe nei gasdotti che si potrebbero riparare, con vantaggio economico anche dei produttori: se non lo si fa, si spiega, oltre che per un vuoto legislativo, è perché i gasdotti non appartegono ai produttori. Bisogna rimediare subito è la bottomline del report: limitare le perdite di metano potrebbe essere uno dei provvedimenti più efficaci per ridurre le emissioni.
Se le perdite nei gasdotti possono, entro un certo limite, essere tappate, però, più difficile è intervenire su quelle in fase di estrazione. Questo è un buon motivo, che va ad aggiungersi a molti altri, per dubitare della sostenibilità ambientale dello shale gas. Oltre ad avere impatti ambientali molto pesanti come il depauperamento, l'inquinamento delle falde idriche e il rischio di innesco di attività sismiche, il fracking, la procedura per estrarre il gas non convenzionale dagli scisti iniettandovi acqua e sostanze chimiche ad altissima pressione, causa fughe di gas.
Ricerche recenti citate nello studio WRI e condotte attorno a pozzi di shale gas attivi in Colorado ci dicono che nel proceso di estrazione tramite fracking circa il 4% del gas estratto finisce in atmosfera. Anche se gran parte della letteratura scientifica in materia stima che le emissioni dello shale gas siano paragonabili a quelle del gas convenzionale, questi dati potrebbero confermare quanto sostenuto da uno studio del 2011 della Cornell University, che conclude che l'impronta dello shale gas in termini di emissioni su un periodo di 20 anni sia dal 22 al 43% più grande di quella del gas convenzionale, mentre sui 100 anni - per via della permanenza relativamente breve del metano in atmosfera - sia mggiore dal 14 al 19%.
Con il nucleare in crisi e le rinnovabili ancora minoritarie, molti hanno individuato nel gas la fonte di transizione per decarbonizzare il sistema energetico. Una fiducia galvanizzata dal recente boom dello shale gas, il gas non convenzionale estratto dalle rocce attraverso il fracking. Il gas, se guardiamo solo al processo di combustione, è indubbiamente la fonte fossile con meno emissioni: una centrale a gas emette grosso modo la metà della CO2 rispetto ad una a carbone. Se si guarda all'intero ciclo di vita dell'energia da gas però emerge un aspetto quasi sempre trascurato che ridimensiona di molto i vantaggi del gas: quello delle fughe di metano in atmosfera.
Ce lo ricorda un report del World Resources Institute, fresco di pubblicazione (vedi allegato in basso). Sia nel processo di estrazione, che durante il trasporto del gas, si spiega, in atmosfera finiscono quantità rilevanti di metano: circa il 2-3% della produzione totale, ma alcuni studi (il report propone una sorta di censimento della letteratura scientifica esistente) parlano di un impressionante 7%.
Emissioni che gravano molto sul clima, specialmente nei primi 20 anni: il metano infatti ha un potere climalterante decine di volte superiore a quello della CO2, anche se ha un tempo di permanenza in atmosfera pari a un decimo di questa. Per l'esattezza, secondo studi recenti, il metano ha un potere climalterante di 33 volte superiore a quello della CO2 sui 100 anni e 105 volte maggiore sui 20 anni (il quarto rapporto IPCC del 2007 parla di un potere riscaldante sui 100 anni superiore di 21 volte alla CO2, ma la proporzione fatta sarebbe superata perché non tiene conto dell'interazione con gli aereosol).
Assumendo conservativamente che le fughe siano solo il 2% della produzione, lo studio del WRI, riferito al mercato USA, le quantifica in 6 milioni di tonnellate di metano l'anno che finiscono in atmosfera: un contributo al disastro climatico pari a quello delle emissioni di 120 milioni di auto. Tra le altre cose uno spreco (sempre parlando dei soli Stati Uniti) da 1,5 miliardi di dollari l'anno. Una perdita attribuibile in parte a fughe nei gasdotti che si potrebbero riparare, con vantaggio economico anche dei produttori: se non lo si fa, si spiega, oltre che per un vuoto legislativo, è perché i gasdotti non appartegono ai produttori. Bisogna rimediare subito è la bottomline del report: limitare le perdite di metano potrebbe essere uno dei provvedimenti più efficaci per ridurre le emissioni.
Se le perdite nei gasdotti possono, entro un certo limite, essere tappate, però, più difficile è intervenire su quelle in fase di estrazione. Questo è un buon motivo, che va ad aggiungersi a molti altri, per dubitare della sostenibilità ambientale dello shale gas. Oltre ad avere impatti ambientali molto pesanti come il depauperamento, l'inquinamento delle falde idriche e il rischio di innesco di attività sismiche, il fracking, la procedura per estrarre il gas non convenzionale dagli scisti iniettandovi acqua e sostanze chimiche ad altissima pressione, causa fughe di gas.
Ricerche recenti citate nello studio WRI e condotte attorno a pozzi di shale gas attivi in Colorado ci dicono che nel proceso di estrazione tramite fracking circa il 4% del gas estratto finisce in atmosfera. Anche se gran parte della letteratura scientifica in materia stima che le emissioni dello shale gas siano paragonabili a quelle del gas convenzionale, questi dati potrebbero confermare quanto sostenuto da uno studio del 2011 della Cornell University, che conclude che l'impronta dello shale gas in termini di emissioni su un periodo di 20 anni sia dal 22 al 43% più grande di quella del gas convenzionale, mentre sui 100 anni - per via della permanenza relativamente breve del metano in atmosfera - sia mggiore dal 14 al 19%.
Se così fosse lo shale gas per il clima non sarebbe migliore di petrolio e carbone: rispetto al petrolio, sui 20 anni, l'impatto sarebbe dal 50% a 2,5 volte più pesante e sui 100 anni da equivalente a peggiore del 35%. Rispetto al carbone, invece, sul periodo dei 20 anni, avrebbe un'impronta climatica dal 20% a oltre il doppio più grande, mentre sui 100 anni l'impatto sul clima sarebbe sostanzialemente simile.
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