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mercoledì 9 aprile 2014

Greenpeace e WWF: Crocetta convochi il tavolo tecnico per fermare le trivelle in Sicilia

Greenpeace e WWF: Crocetta convochi il tavolo tecnico per fermare le trivelle in Sicilia

(Fonte:ZeroEmission.it)
 
 
 
Nei giorni scorsi, Greenpeace e WWF hanno protestato davanti al Palazzo della Regione Siciliana, avviando simbolicamente il “tavolo tecnico” contro le trivelle in mare promesso oramai un anno fa e mai avviato dal Presidente Crocetta e dall’Assessore all’Ambiente Lo Bello. Gli attivisti hanno esposto striscioni con i messaggi “No Trivelle nel Canale di Sicilia” e “Il mare di Sicilia non si tocca” e, allestendo in pochi minuti tavolo e sedie, hanno voluto dimostrare quanto poco ci voglia ad avviare una fase consultiva per tutelare il mare della Sicilia.
«Le estrazioni petrolifere nel Canale di Sicilia non solo mettono in pericolo l’ecosistema e la ricca biodiversità di quest’area, ma anche tutti quei settori dell’economia come la pesca e il turismo che dipendono dal mare» dichiarano Greenpeace e WWF. Da tempo Greenpeace e WWF si battono per impedire i numerosi progetti di trivellazione che minacciano il Canale di Sicilia; lo scorso febbraio hanno lanciato insieme una petizione sul sito di change.org rivolta al Presidente Crocetta perché mantenesse le sue promesse per un futuro senza trivelle e al momento oltre 36.000 persone hanno deciso di sottoscrivere l’appello, al quale però il Presidente non ha mai risposto.

Nel frattempo Edison e ENI stanno per essere autorizzati a trivellare fino a ventuno pozzi al largo di Pozzallo per l’estrazione di bitume con la piattaforma “Vega b”. Una follia che non genera occupazione (la piattaforma sarà automatizzata) e rischia di avviare la corsa all’oro nero nel Canale di Sicilia. Per fermare questa follia, Greenpeace e WWF hanno distribuito un documento che riassume compiti e obiettivi del tavolo tecnico: progetti legislativi, iniziative politico-istituzionali, collaborazioni scientifiche e progetti culturali. «Chiediamo un impegno forte a favore dell’ambiente e non degli interessi dei petrolieri, contro le perforazioni off-shore e a favore di provvedimenti efficaci per la tutela del Canale di Sicilia, una delle zone più ricche di biodiversità del Mediterraneo» concludono WWF e Greenpeace. Mentre Crocetta e il suo Assessore all’Ambiente, Lo Bello, promettevano un tavolo tecnico contro le trivelle, l’Assemblea Regionale approvava misure incentivanti le estrazioni petrolifere e Crocetta si schierava su questa linea, sostenendo di non poter “pensare di mettere norme che disincentivano l’attività economica, produttiva e imprenditoriale”. Greenpeace e WWF ritengono piuttosto che, come dimostrano i ripetuti incidenti al petrolchimico di Gela, niente come il petrolio e le trivelle disincentiva l’attività economica, produttiva e imprenditoriale in Sicilia. Il mare è il vero petrolio, l’oro blu, su cui la Regione aveva promesso di voler puntare.

venerdì 27 settembre 2013

Trivelle: dal WWF dossier contro la Strategia Energetica Nazionale

(Fonte:GreenStyle.it-Marco Mancini)

 
 
La situazione delle trivellazioni sul territorio italiano si fa sempre più preoccupante. Nell’ambito della campagna contro le trivelle, WWF Italia si rivolge direttamente al Governo Letta, forte delle migliaia di firme raccolte, per chiedere di fermare lo scempio che ha causato la SEN, la Strategia Energetica Nazionale.

Inaugurata dal precedente Governo Monti come una delle ultime azioni prima delle dimissioni, questa strategia mira a sfruttare il poco petrolio di pertinenza italiana ancora rimasto nel sottosuolo e nel mar Mediterraneo, al fine di garantire la sicurezza energetica al Paese. Peccato però che gli esperti convocati direttamente dal Ministero dello Sviluppo Economico abbiano stabilito che, anche se si estraesse fino all’ultima goccia di petrolio, l’Italia sarebbe autosufficiente per soltanto 7 settimane.

Dare l’autorizzazione alle trivellazioni non è nemmeno conveniente dal punto di vista economico visto che solo la metà dei progetti autorizzati paga le royalties, mentre il rischio di qualche incidente (la marea nera del 2010 nel Golfo del Messico insegna) è sempre molto elevato. Dal dossier “Trivelle in vista” realizzato dal WWF deriva una fotografia della situazione italiana molto preoccupante. Attualmente ci sarebbero:
3 istanze di permesso di prospezione (le quali occupano un’area di 30.810 kmq);
31 istanze di permesso di ricerca (14.546 kmq);
22 permessi di ricerca (7.826 kmq);
10 istanze di coltivazione (1.037 kmq);
67 concessioni di coltivazione (9.025 kmq).

A questi vanno aggiunti 396 pozzi produttivi in mare di cui 335 a gas e 61 a petrolio, 104 piattaforme di produzione, 8 di supporto e 3 di stocaggio temporaneo. Questa “colonizzazione”, come l’ha definita lo stesso WWF, riguarda principalmente il Sud Italia, dalla Sicilia alla Sardegna passando per l’Adriatico e lo Jonio, per un’estensione talmente grande da misurare quanto la Corsica.

Questa è solo una parte di quello che inizialmente era previsto dato che l’attuale ministro Zanonato ha sottratto dall’elenco altri 116 mila chilometri quadrati di aree marine pronte per essere trivellate. Per ridurre l’inquinamento marino ed evitare eventuali disastri futuri, il WWF chiede che la SEN venga definitivamente abbandonata perché, a conti fatti, non conviene né all’Italia né agli italiani.

venerdì 6 settembre 2013

Trivelle nei mari italiani e la retorica ambientalista di Zanonato

Trivelle nei mari italiani e la retorica ambientalista di Zanonato

(Fonte:QualEnergia.it-Giulio Meneghello)

 
 
 
 
 
Parole, parole, parole: un bluff che lascia i mari italiani ostaggio dei petrolieri. Se si vanno a guardare i fatti, si potrebbero tranquillamente definire così le dichiarazioni del ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato sul decreto di riordino delle zone marine da poco firmato.

In un comunicato uscito l'altro ieri, il ministro annunciava che con il nuovo decreto del 9 agosto si determina un “quasi dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore, che passano da 255 a 139mila chilometri quadrati, spostando le nuove attività verso aree lontane dalle coste e comunque già interessate da ricerche di Paesi confinanti, nel rispetto dei vincoli ambientali e di sicurezza italiani ed europei”. In particolare, il decreto, spiegano dal MiSE, determina la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche e di quelle entro le 12 miglia da tutte le coste e dalle aree marine protette, con la contestuale residua apertura di un’area marina nel mare delle Baleari, contigua ad aree di ricerca spagnole e francesi.

Finalmente, dunque, un provvedimento che difende i nostri mari e, come recita la nota ministeriale, “coniuga sviluppo e ambiente”? Niente affatto: “Zanonato fa il furbo e tace sulla riapertura per le trivellazioni che, comprese tra le 5 miglia e le 12, erano state vietate da Prestigiacomo e che furono riammesse da Passera. Lui parla solo del futuro, che non era in discussione”, commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club.

Per capire occorre fare un passo indietro. Nel 2010, all'indomani del disastro del Golfo del Messico, seguito all’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon della BP, l'allora ministro dell'Ambiente Stafania Prestigiacomo, con il “correttivo ambientale” (decreto legislativo n.128 del 29 giugno 2010) aveva innalzato da 5 a 12 miglia marine (19 km) il limite entro il quale autorizzare prospezioni e ricerca di idrocarburi in prossimità di aree protette marine.
Uno sgarro ai petrolieri cui però si è prontamente rimediato: nel 2012 l'allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera con il cosiddetto decreto “Crescita” (Legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, all'articolo 35) se da una parte ha confermato il limite delle 12 miglia, in quell'occasione esteso anche a tutte le coste, dall'altra ha condonato di fatto le richieste già in atto, specificando che dalle restrizioni sono fatti salvi i procedimenti concessori che erano in corso alla data di entrata in vigore del cosiddetto 'correttivo ambientale' del 2010. 


Un condono che non viene minimamente scalfito dal nuovo decreto emanato da Zanonato il 9 agosto. Unica restrizione che il nuovo provvedimento aggiunge è la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche. “Peccato che nessuno abbia mai pensato di andare a trivellare lì dato che di petrolio non ce n'è. Sarebbe come vietare di attingere acqua dal Sahara”, sottolinea ironico Ferrante.

“Le aree alle quali il decreto limita le ricerche sono quelle con maggiori prospettive, quelle che elimina sono invece quasi sempre state fuori dalle mire petrolifere”, gli fa eco Pietro Dommarco, autore del libro “Trivelle d'Italia”.

Risultato? Con il dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore e la conferma del limite delle 12 miglia sbandierate da Zanonato non cambia assolutamente nulla: i nostri mari continuano a essere assediati da chi li vorrebbe trivellare. Per rendersene conto basta confrontare la mappa con cui il ministero mostra le aree cui il nuovo decreto limita prospezioni e trivellazioni (a destra) con quella tratta dal dossier di Legambiente “Per un pugno di taniche”, nella quale si individuano le aree per le quali i petrolieri hanno manifestato interesse.



Al momento, mostra il dossier, ci sono 7 richieste per la coltivazione di nuovi giacimenti per un totale di 732 kmq individuati (ovvero dove le ricerche sono andate a buon fine), che andrebbero a sommarsi ai 1.786 kmq su cui già insistono le piattaforme attive; ci sono 14 i permessi di ricerca attivi per un totale di 6.371 kmq. Infine ci sono 32 richieste non ancora autorizzate per un totale di 15.574 kmq: in totale l'area di mare in cui si trivella o si vorrrebbe trivellare è di 24mila kmq, grande come la Sardegna. E' in atto un vero assalto al mare italiano, in particolare all’Adriatico centro meridionale, allo Jonio e al Canale di Sicilia dove, oltre a quelle già attive, potrebbero presto sorgere decine di altre piattaforme. E il nuovo decreto emanato da Zanonato non farà nulla per fermarlo.

Tutto ciò come ricordano gli autori del dossier Legambiente “nonostante i numeri dimostrino l’assoluta insensatezza di continuare a puntare sul petrolio: il mare italiano, secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo economico, conserva come riserve certe, circa 10 milioni di tonnellate di greggio che, stando ai consumi attuali durerebbero in teoria per appena due mesi.

Così, alla trasformazione energetica che negli ultimi dieci anni ha portato ad una quasi completa uscita del petrolio dal settore elettrico, si risponde con un attacco senza precedenti alle risorse paesaggistiche e marine italiane, che favorirebbe soltanto l’interesse di pochi e sempre degli stessi: le compagnie petrolifere. Le realtà locali restano succubi di queste scelte scellerate: Regioni, Province e Comuni sono, infatti, ormai tagliate fuori dal tavolo decisionale. Il futuro, la bellezza, l’economia del nostro Paese viene svenduto 'per un pugno di taniche'”.

giovedì 6 settembre 2012

Nuova piattaforma per ENI e EDISON in Sicilia!

Trivellazioni petrolio in Sicilia: nuova piattaforma per ENI e Edison.

(Fonte:GreenStyle.it-Peppe Croce)
L’estate è la stagione delle coincidenze. Mentre Greenpeace solcava i mari siciliani con il suo "No Trivelle Tour" per dire no alle trivellazioni petrolifere offshore nel Canale di Sicilia, contemporaneamente l’industria e il Governo preparavano la nuova espansione della produzione di petrolio proprio nel delicato tratto di mare tra la Sicilia e Malta.
A fine luglio, infatti, Edison ha depositato al Ministero dell’Ambiente i documenti per ottenere la VIA al progetto di costruzione di una nuova piattaforma petrolifera al largo della costa iblea, nel mare ragusano. Proprio dove già oggi c’è la Vega A, infatti, Edison vorrebbe costruire la Vega B, piattaforma quasi gemella che serve per mettere in produzione la seconda parte della concessione petrolifera C.C6.EO. Il campo Vega, infatti, è costituito da due sacche di petrolio non collegate tra loro e che devono essere trivellate separatamente.
Tutto questo, è bene notarlo, era già previsto nel progetto originario di sviluppo del campo Vega datato 1984. A quasi trent’anni di distanza, quindi, Edison (insieme al suo partner al 40% nella concessione ENI) vorrebbe completare l’opera costruendo la seconda piattaforma. E può farlo, visto che il campo Vega si trova a qualche centinaio di metri dal limite delle 12 miglia previsto dalla sanatoria Passera sulle trivelle offshore.
C’è da chiedersi, invece, se nella costruzione della seconda piattaforma verrà coinvolto il Consorzio CEM (del quale fa parte anche la Coemi, azienda di famiglia dell’ex ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo) che si occupò pochi anni fa di trasformare la petroliera Leonis nella struttura che oggi serve a trasferire il petrolio dalla piattaforma alle navi petroliere più piccole che, a loro volta, lo portano in raffineria. I dettagli operativi della futura Vega B li spiega Pietro Dommarco, autore del libro “Trivelle d’Italia”, su Altraeconomia:

Per mettere in funzione la Vega B serve “bucare” altro fondale marino. Si comincerà con 4 pozzi ma, in caso di risultati positivi, potrebbe subentrare la necessità di perforarne altri, fino a 24. L’obiettivo è produrre 6400 barili di greggio al giorno. Un quantitativo che, moltiplicato per i 21 anni del progetto totale, fornisce una stima dieci volte superiore a quella preventivata. I conti non tornano e i risultati potrebbero rivelarsi scarsi, ma comunque sostenibili dal punto di vista economico. Del resto è quello che avvenne anche per la Vega A, per la quale si stimavano 7000 barili di greggio giornalieri e più, oggi scesi a 3000.

Tornando agli strani allineamenti estivi, invece, va notato come la bozza della Strategia Energetica Nazionale redatta ad agosto (a pochi giorni dalla presentazione dei documenti del progetto da parte di Edison ed ENI) dal Governo Monti preveda lo sviluppo delle attività petrolifere nell’ "offshore ibleo". Cioè esattamente dove Edison ed ENI hanno intenzione di piazzare la nuova piattaforma.
Tutto ciò, oltre che essere curioso, non mancherà di irritare le altre aziende petrolifere che vorrebbero bucare il Canale di Sicilia: per quale motivo il ministro Corrado Passera ha inserito in un documento strategico ufficiale del Governo italiano un progetto specifico (perché di questo si tratta: il Governo che benedice la piattaforma Vega B ancor prima di concederle la Valutazione Ambientale) lasciando fuori tutti gli altri?
In ogni caso il progetto è ormai depositato e c’è tempo per presentare le proprie osservazioni solo fino al 25 settembre. Il Comune di Modica, che ha una frazione marittima sul Canale di Sicilia ed è sede del Tribunale dove si svolge il processo contro Edison per la vecchia piattaforma (l’accusa è quella di aver iniettato nei pozzi acque di sentina e altri rifiuti senza l’autorizzazione del Ministero), si è già detto contrario alla costruzione della Vega B. Antonello Buscema, sindaco di Modica, ha dichiarato:

È necessario che le istituzioni del nostro comprensorio concordino un’azione comune di contrasto all’iniziativa di raddoppio della piattaforma Vega, che peraltro sembra fare da battistrada alla costruzione di nuove piattaforme nel Canale di Sicilia, per le quali risultano già in corso le pratiche autorizzative. Ed è necessario che lo facciano sia nelle sedi nelle quali viene data formalmente ai nostri Enti la facoltà di esprimersi, sia attraverso un’azione di mobilitazione che deve sin da subito vederci in prima linea come classe politica, sensibilizzando il Ministero e la Regione (che dovrà esprimersi insieme a noi) rispetto al punto di vista del nostro territorio.
Dopo aver convintamente aderito all’appello lanciato da Greenpeace contro le perforazioni nel Canale di Sicilia, è arrivato il momento di sostenere con atti concreti la nostra posizione, che tocca due argomenti fondamentali per il nostro futuro.