Come è cambiato il gioco con il boom delle rinnovabili
(Fonte:QualEnergia.it-Giuseppe Artizzu)
Il 25 gennaio 2011 il GSE rivela in Senato che a fine 2010 risultavano 200.000 impianti fotovoltaici, circa 7.000 MW. È un fulmine a ciel sereno, soprattutto per i produttori convenzionali che con un blitz notturno sul Decreto Romani tentano di annientare ex lege la filiera fotovoltaica. Il settore viene reinventato dalla stampa come un club di speculatori.
Qualcuno fa presente che l’aumento dell’offerta di elettricità all’ingrosso ne avrebbe abbassato il prezzo, contenendo l’impatto reale degli incentivi in bolletta. Ma i mezzi di comunicazione sono impari: per Massimo Mucchetti sul Corriere il peak shaving è una «leggenda metropolitana». Pur in buona fede, sbaglia. A distanza di due anni il mercato elettrico ha cambiato volto.
Il 2010 si era chiuso con una produzione fotovoltaica di 1,9 terawattora. Nel 2011 è boom: i terawattora diventano 10,7 (il 3,2% del fabbisogno). D’estate il fotovoltaico copre il 5% della domanda sulle 24 ore, e il 10-15% del picco diurno feriale. Abbastanza per avere un forte impatto sul prezzo dell’elettricità. Ma l’effetto è minore delle attese. Perché? Semplice, il GSE non si è dotato di adeguati strumenti previsionali: l’elettricità in rete ci va, ma il giorno prima il GSE ne offre sul mercato elettrico solo una piccola parte. Per tutto il 2011 le statistiche del mercato elettrico ignorano il fotovoltaico, affogato nella categoria «Altro termico» (Fig. 1).
Le conseguenze sono paradossali: il prezzo sul mercato del giorno prima è gonfiato da un’offerta sottostimata rispetto ai flussi fisici, mentre Terna si trova a gestire un sistema strutturalmente “lungo”, con flussi in immissione superiori a quelli in prelievo. Sbilanciamento che deve correggere offrendo energia a prezzi stracciati sul mercato dei servizi di dispacciamento. A pagare sono gli utenti.
A fine anno vien fuori uno sbilanciamento di 10 terawattora (il fabbisogno aggregato di Marche e Basilicata), che in bolletta fa esplodere la componente a copertura dei costi di dispacciamento. Nel comunicato stampa del 30 marzo 2012 l’Autorità infierisce: «Nell’aumento del 5,8% delle bollette elettriche l’effetto indiretto delle rinnovabili intermittenti vale circa il 40%». Che c’entrano le rinnovabili se il soggetto pubblico istituzionalmente deputato a prevederne la produzione non lo fa? Sia come sia, sulla stampa questa storia passa sotto traccia. Ma è chiaro che nel Palazzo qualcosa si muove, e dalla primavera 2012 le cose cambiano, radicalmente.
Enel è la prima a veder nuvole all’orizzonte. A pochi giorni dall’appuntamento annuale con la comunità finanziaria, suggerisce sottovoce agli analisti di tagliare un miliardo di euro dalle stime sul margine di generazione 2012. Le case d’investimento affondano il coltello, e fra il 16 e il 17 febbraio l’azione perde il 9%.
Da marzo la curva oraria infragiornaliera, che già nel 2011 aveva dato segni di evoluzione, mostra un break strutturale. I prezzi medi scontano il rialzo del combustibile, con effetti particolarmente accentuati in prima mattinata e prima serata. Ma nelle ore centrali della giornata i prezzi scendono. Nei giorni festivi c’è addirittura un’inversione, con prezzi diurni più bassi di quelli notturni.
In aprile nelle statistiche del Gestore del Mercato Elettrico compare la categoria «Solare e altro», pari all’11% dell’offerta aggregata (Fig. 2): è la conferma che il GSE ha iniziato a fare il suo lavoro, e si vede.
Nonostante un’estate torrida e la conseguente domanda di condizionamento, i prezzi diurni rimangono estremamente moderati. Picchi anomali si registrano solo in serata, specialmente in Sicilia, dove l’obsolescenza della rete e i limiti del parco di generazione si fanno sentire. L’autunno 2012 porta una bella novità per i consumatori: un ribasso generalizzato dei prezzi in tutte le fasce orarie (Fig. 3).
È l’effetto convergente di quattro fattori: domanda asfittica, ulteriore crescita delle rinnovabili (grazie in particolare a una stagione piovosa e ventosa), minore numero di ore in cui gli impianti a gas sono al margine della curva di dispacciamento (a favore di fonti più economiche quali import e carbone), vistoso calo dei prezzi dei combustibili.
A smentire le cassandre, negli ultimi mesi il mercato sembra essersi stabilizzato, a prezzi molto inferiori rispetto al recente passato (nonostante il Brent intorno ai 110 $ al barile) e con bassa volatilità. Sia chiaro, l’overcapacity pesa come un macigno, ma ci sono anche segnali di adattamento del sistema al nuovo scenario, con le fonti rinnovabili a farla (congiuntamente) da protagoniste.
Gioco di squadra
Quando si parla di spiazzamento degli impianti convenzionali da parte del fotovoltaico, l’idea è che nelle ore di maggiore irradiazione i cicli combinati a gas (e talvolta qualche gruppo a carbone) scendono al minimo tecnico, per riaccelerare bruscamente al tramonto. In questo c’è molto di vero, ma la realtà è più complessa. Tradizionalmente, la modulazione oraria dell’offerta aggregata in funzione delle variazioni del fabbisogno nelle ore diurne è assicurata in primo luogo dagli impianti idroelettrici, non dai cicli combinati. Ci si aspettava quindi che il primo effetto del fotovoltaico sarebbe stato una minore offerta idroelettrica sul Mercato del Giorno Prima nelle ore centrali della giornata (ricordiamo che gli impianti idroelettrici a bacino hanno una producibilità limitata, da sfruttare nelle ore “pregiate”). Ma nel 2011 la forte sottostima della produzione fotovoltaica da parte del GSE, oltre a sbilanciare il mercato, ha impedito il generarsi di segnali di prezzo tali da spingere la produzione idroelettrica dalle ore centrali della giornata verso la prima mattinata e la serata.
Nel 2012 i segnali di prezzo si sono generati, eccome. L’offerta idroelettrica sul mercato è cambiata di conseguenza, con un collasso dei volumi nelle ore centrali della giornata a favore delle ore di maggior carico residuo. In altre parole, nonostante il perdurante sottoutilizzo degli
impianti di pompaggio, i bacini idroelettrici tendono ora a compensare il profilo di produzione del fotovoltaico, lasciando il passo nelle ore di maggior irradiazione per subentrare nel tardo pomeriggio. Questo ha sicuramente contribuito al netto calo della volatilità oraria e al contenimento dei picchi serali di prezzo osservati lo scorso anno. In più, la rampa richiesta ai cicli combinati al tramonto è meno critica, in quanto parte del lavoro è svolto dagli impianti idroelettrici (con minori vincoli tecnici).
In prospettiva, si attende che il ruolo di compensazione dei bacini idroelettrici assuma anche una dimensione stagionale. I segnali di prezzo incentivano infatti il pieno sfruttamento dei grandi serbatoi stagionali (circa 6 TWh di capacità) per conservare produzione diurna estiva in vista dei pomeriggi d’inverno. Non è forse un caso se a fine estate 2012 il livello degli invasi fosse comunque discreto, nonostante la pessima idraulicità nella prima parte dell’anno, e a fine inverno fosse invece particolarmente depresso, nonostante la buona idraulicità nella stagione invernale. A differenza dal recente passato, l’idroelettrico rende più d’inverno che d’estate, e il mercato si adegua. Altro interessante elemento di complementarità è quello fra profilo stagionale della produzione fotovoltaica ed eolica: in Italia negli ultimi dodici mesi il contributo mensile aggregato è stato stabilmente fra due e tre terawattora, garantendo la copertura di una quota relativamente costante del fabbisogno, nonostante la pronunciata stagionalità delle singole fonti.
Rinnovabili e mercato del gas
Dal 2008 a oggi, il contributo delle fonti rinnovabili innovative (fotovoltaico, eolico e biomasse) è passato da 11 a circa 45 TWh di produzione lorda. Queste fonti hanno spiazzato la produzione a gas: circa 6 miliardi di metri cubi di minori importazioni.
Se l’impatto diretto delle rinnovabili sul mercato elettrico è ormai evidente, quello sul mercato del gas è meno noto. Fra 2008 e 2012 il fabbisogno gas è sceso di oltre 10 miliardi di metri cubi: di questi, quasi 9 sono dovuti al minor fabbisogno termoelettrico, a sua volta tagliato per due terzi dalle rinnovabili e per un terzo da calo della domanda e maggiore produzione a carbone (al netto del minor uso di olio combustibile). In altre parole, le rinnovabili elettriche sono il principale fattore dietro il drastico riequilibrio fra domanda e offerta che ha portato anche in Italia al decoupling fra prezzo di gas e petrolio, e a quotazioni spot addirittura a sconto rispetto agli hub continentali.
La conseguenza? Prezzi dell’elettricità più bassi in tutte le fasce orarie, non solo quelle irradiate dal sole, e gas più economico anche per forniture residenziali e industriali.
Ora, quanto dei dieci miliardi e mezzo di incentivi torna ai consumatori come minor costo delle commodity? Sarebbe ora che qualcuno in Via Molise questa analisi la facesse, sul serio. La Strategia Energetica Nazionale stima ancora il peak shaving del fotovoltaico a 400 milioni di euro: sono numeri del 2011, quando solo una minima parte della produzione fotovoltaica reale pesò sui prezzi di mercato.
Per un’idea delle vere grandezze in gioco, guardiamo il margine industriale lordo di Enel nella generazione: nel 2009, annus horribilis, era di 3 miliardi di euro; nel 2012 ne sono rimasti solo 1,3. Enel, con il 26% del mercato, ha perso da sola 1,7 miliardi di margine. Edison è passata da 1,2 miliardi a 600 milioni, e così via. Non dipenderà solo dal fotovoltaico, ma altro che 400 milioni.
Le criticità
Lo sviluppo delle rinnovabili è stato tumultuoso: le criticità emerse sono numerose. Qui ci limitiamo a quelle che, se non gestite, rischiano di destabilizzare il sistema nel suo complesso. Sul piano tecnico, la maggior sfida è l’erosione del margine di riserva primaria che affligge il sistema al crescere delle fonti non programmabili. La riserva primaria è il margine di potenza incrementale che gli impianti programmabili in funzione sono obbligati da Terna a mantenere in ogni momento, per far fronte a eventuali perturbazioni sulla rete. Più impianti convenzionali sono spiazzati, minori i margini di sicurezza, e il trend attuale è insostenibile. Sul piano economico, le maggiori criticità riguardano invece la remunerazione degli impianti convenzionali e l’effetto distorsivo degli incentivi in bolletta.
Le rinnovabili intermittenti rimpiazzano energia, non capacità. Con un mercato elettrico dominato da impianti convenzionali, in condizioni normali il prezzo di equilibrio remunerava sia l’energia che la capacità. Oggi non è più così: sulla formazione del prezzo pesa in misura determinante un volume crescente di energia prodotta da fonti intermittenti, la cui potenza non può essere considerata capacità ai fini dell’adeguatezza del sistema. Se oggi l’overcapacity nella generazione convenzionale rende questo un non-problema, nel medio termine si pone l’esigenza di remunerare la capacità convenzionale necessaria a coprire i picchi di carico residuo (peraltro sempre più rari per il menzionato gioco di squadra fra fonti rinnovabili). E poi ci sono gli incentivi in bolletta. Dieci miliardi e mezzo sono un’enormità, pari a una carbon tax di oltre 20 euro per tonnellata di CO2 emessa in Italia. Che pesa però solo sulle utenze elettriche, in particolare piccole e medie imprese, mentre i benefici sono diffusi. È uno stato di cose insostenibile, oltre che iniquo.
Un sistema anche per le rinnovabili
Di fronte a queste sfide non bastano ritocchi al sistema, occorre un ridisegno articolato su almeno sei aree di intervento:
• Terzietà dell’infrastruttura. Quando quindici anni fa si liberalizzò il sistema elettrico, il primo passo fu l’indipendenza della rete di trasmissione. Oggi la concorrenza è fra generazione distribuita e generazione centralizzata, fra fonti convenzionali e intermittenti: porre il tema della terzietà di reti di distribuzione e capacità di accumulo esistente (ovvero impianti idroelettrici a pompaggio) non è provocatorio, è ovvio;
• Accumuli. Sono una necessità, non un lusso: senza batterie a fornire riserva primaria, il sistema diventa ostaggio di una quota significativa di fabbisogno da fornire con impianti convenzionali. Le limitazioni sempre più frequenti che Terna impone alle bande di import, riducendo così l’apporto di una fonte a basso costo, sono prova evidente delle diseconomie che ciò comporta;
• Sistemi di distribuzione chiusi. Con penetrazioni crescenti di generazione distribuita non programmabile, la decentralizzazione del dispacciamento (ossia la responsabilizzazione delle utenze rispetto alla gestione del profilo di prelievo/immissione in rete) diventa un fattore cruciale di flessibilità ed efficienza del sistema. Se i distributori soffrono vincoli finanziari (e conflitti d’interesse) dei gruppi di appartenenza, le smart grid possono e devono nascere dal basso, attraverso la condivisione fra utenze di impianti di generazione e sistemi di accumulo. Ma perché ciò accada è necessario che lo sfavore regolatorio per i sistemi di distribuzione chiusi sia superato;
• Servizi di dispacciamento. L’intento dichiarato dell’Autorità è quello di far partecipare le fonti rinnovabili ai costi di dispacciamento che esse contribuiscono a creare. In prospettiva, l’obiettivo dovrebbe essere invece di favorire la partecipazione attiva delle rinnovabili al mercato dei servizi di dispacciamento, non semplicemente alla copertura dei costi;
• Capacity payment. Ove un numero consistente di impianti convenzionali fosse messo a riposo, e i prezzi continuassero a non essere remunerativi per quelli residui, parlare di capacity payment sarebbe inevitabile. In verità ci si sta già lavorando, e forse è prematuro. In ogni caso, è necessario che il dispositivo sia neutrale rispetto alla soluzione tecnologica, e quindi accessibile a parità di prestazioni anche a generazione distribuita e sistemi di accumulo;
• Carbon tax. Il graduale trasferimento dell’onere di incentivazione dalle bollette alla fiscalità generale è un tema difficile ma ineludibile. L’ipertrofia della porzione amministrata della bolletta elettrica, oltre a essere insostenibile per alcune categorie di clienti, disincentiva una maggiore penetrazione del vettore elettrico in utilizzi (come il riscaldamento con pompe di calore) che migliorerebbero l’efficienza aggregata del sistema. Una carbon tax che riallocasse l’onere di incentivazione dalle bollette elettriche agli usi di combustibile, proporzionalmente al contenuto di CO2, rimuoverebbe le distorsioni e internalizzerebbe nel sistema dei prezzi le diseconomie ambientali dei combustibili fossili.
Indietro non si torna
L’esplosione delle rinnovabili elettriche ha imposto un cambio di paradigma ai mercati dell’elettricità e del gas, dimostrando che un’alternativa esiste. Il prezzo è stato una colossale distorsione delle dinamiche competitive e il proliferare di operazioni speculative, effetto di oltre dieci miliardi di euro l’anno di incentivi.
La domanda è ovvia: non si poteva fare meglio? In un mondo ideale sì, e a una frazione del costo. Ma la realtà è diversa: gli interessi colpiti dallo sviluppo su larga scala delle fonti rinnovabili, soprattutto in un contesto recessivo, sono enormi. L’ETS doveva essere la risposta razionale alle diseconomie ambientali dei combustibili fossili: ebbene, i gruppi di pressione hanno ottenuto allocazioni a buon mercato di diritti di emissione al di là di ogni logica. Il naufragio è sotto gli occhi di tutti.
Con un pizzico di cinismo, vien da dire che il cambio di paradigma potesse avvenire solo “per sbaglio”. Così è stato: ora c’è da rimettere ordine, ma indietro non si torna.
Qualcuno fa presente che l’aumento dell’offerta di elettricità all’ingrosso ne avrebbe abbassato il prezzo, contenendo l’impatto reale degli incentivi in bolletta. Ma i mezzi di comunicazione sono impari: per Massimo Mucchetti sul Corriere il peak shaving è una «leggenda metropolitana». Pur in buona fede, sbaglia. A distanza di due anni il mercato elettrico ha cambiato volto.
Il 2010 si era chiuso con una produzione fotovoltaica di 1,9 terawattora. Nel 2011 è boom: i terawattora diventano 10,7 (il 3,2% del fabbisogno). D’estate il fotovoltaico copre il 5% della domanda sulle 24 ore, e il 10-15% del picco diurno feriale. Abbastanza per avere un forte impatto sul prezzo dell’elettricità. Ma l’effetto è minore delle attese. Perché? Semplice, il GSE non si è dotato di adeguati strumenti previsionali: l’elettricità in rete ci va, ma il giorno prima il GSE ne offre sul mercato elettrico solo una piccola parte. Per tutto il 2011 le statistiche del mercato elettrico ignorano il fotovoltaico, affogato nella categoria «Altro termico» (Fig. 1).
Le conseguenze sono paradossali: il prezzo sul mercato del giorno prima è gonfiato da un’offerta sottostimata rispetto ai flussi fisici, mentre Terna si trova a gestire un sistema strutturalmente “lungo”, con flussi in immissione superiori a quelli in prelievo. Sbilanciamento che deve correggere offrendo energia a prezzi stracciati sul mercato dei servizi di dispacciamento. A pagare sono gli utenti.
A fine anno vien fuori uno sbilanciamento di 10 terawattora (il fabbisogno aggregato di Marche e Basilicata), che in bolletta fa esplodere la componente a copertura dei costi di dispacciamento. Nel comunicato stampa del 30 marzo 2012 l’Autorità infierisce: «Nell’aumento del 5,8% delle bollette elettriche l’effetto indiretto delle rinnovabili intermittenti vale circa il 40%». Che c’entrano le rinnovabili se il soggetto pubblico istituzionalmente deputato a prevederne la produzione non lo fa? Sia come sia, sulla stampa questa storia passa sotto traccia. Ma è chiaro che nel Palazzo qualcosa si muove, e dalla primavera 2012 le cose cambiano, radicalmente.
Enel è la prima a veder nuvole all’orizzonte. A pochi giorni dall’appuntamento annuale con la comunità finanziaria, suggerisce sottovoce agli analisti di tagliare un miliardo di euro dalle stime sul margine di generazione 2012. Le case d’investimento affondano il coltello, e fra il 16 e il 17 febbraio l’azione perde il 9%.
Da marzo la curva oraria infragiornaliera, che già nel 2011 aveva dato segni di evoluzione, mostra un break strutturale. I prezzi medi scontano il rialzo del combustibile, con effetti particolarmente accentuati in prima mattinata e prima serata. Ma nelle ore centrali della giornata i prezzi scendono. Nei giorni festivi c’è addirittura un’inversione, con prezzi diurni più bassi di quelli notturni.
In aprile nelle statistiche del Gestore del Mercato Elettrico compare la categoria «Solare e altro», pari all’11% dell’offerta aggregata (Fig. 2): è la conferma che il GSE ha iniziato a fare il suo lavoro, e si vede.
Nonostante un’estate torrida e la conseguente domanda di condizionamento, i prezzi diurni rimangono estremamente moderati. Picchi anomali si registrano solo in serata, specialmente in Sicilia, dove l’obsolescenza della rete e i limiti del parco di generazione si fanno sentire. L’autunno 2012 porta una bella novità per i consumatori: un ribasso generalizzato dei prezzi in tutte le fasce orarie (Fig. 3).
È l’effetto convergente di quattro fattori: domanda asfittica, ulteriore crescita delle rinnovabili (grazie in particolare a una stagione piovosa e ventosa), minore numero di ore in cui gli impianti a gas sono al margine della curva di dispacciamento (a favore di fonti più economiche quali import e carbone), vistoso calo dei prezzi dei combustibili.
A smentire le cassandre, negli ultimi mesi il mercato sembra essersi stabilizzato, a prezzi molto inferiori rispetto al recente passato (nonostante il Brent intorno ai 110 $ al barile) e con bassa volatilità. Sia chiaro, l’overcapacity pesa come un macigno, ma ci sono anche segnali di adattamento del sistema al nuovo scenario, con le fonti rinnovabili a farla (congiuntamente) da protagoniste.
Gioco di squadra
Quando si parla di spiazzamento degli impianti convenzionali da parte del fotovoltaico, l’idea è che nelle ore di maggiore irradiazione i cicli combinati a gas (e talvolta qualche gruppo a carbone) scendono al minimo tecnico, per riaccelerare bruscamente al tramonto. In questo c’è molto di vero, ma la realtà è più complessa. Tradizionalmente, la modulazione oraria dell’offerta aggregata in funzione delle variazioni del fabbisogno nelle ore diurne è assicurata in primo luogo dagli impianti idroelettrici, non dai cicli combinati. Ci si aspettava quindi che il primo effetto del fotovoltaico sarebbe stato una minore offerta idroelettrica sul Mercato del Giorno Prima nelle ore centrali della giornata (ricordiamo che gli impianti idroelettrici a bacino hanno una producibilità limitata, da sfruttare nelle ore “pregiate”). Ma nel 2011 la forte sottostima della produzione fotovoltaica da parte del GSE, oltre a sbilanciare il mercato, ha impedito il generarsi di segnali di prezzo tali da spingere la produzione idroelettrica dalle ore centrali della giornata verso la prima mattinata e la serata.
Nel 2012 i segnali di prezzo si sono generati, eccome. L’offerta idroelettrica sul mercato è cambiata di conseguenza, con un collasso dei volumi nelle ore centrali della giornata a favore delle ore di maggior carico residuo. In altre parole, nonostante il perdurante sottoutilizzo degli
impianti di pompaggio, i bacini idroelettrici tendono ora a compensare il profilo di produzione del fotovoltaico, lasciando il passo nelle ore di maggior irradiazione per subentrare nel tardo pomeriggio. Questo ha sicuramente contribuito al netto calo della volatilità oraria e al contenimento dei picchi serali di prezzo osservati lo scorso anno. In più, la rampa richiesta ai cicli combinati al tramonto è meno critica, in quanto parte del lavoro è svolto dagli impianti idroelettrici (con minori vincoli tecnici).
In prospettiva, si attende che il ruolo di compensazione dei bacini idroelettrici assuma anche una dimensione stagionale. I segnali di prezzo incentivano infatti il pieno sfruttamento dei grandi serbatoi stagionali (circa 6 TWh di capacità) per conservare produzione diurna estiva in vista dei pomeriggi d’inverno. Non è forse un caso se a fine estate 2012 il livello degli invasi fosse comunque discreto, nonostante la pessima idraulicità nella prima parte dell’anno, e a fine inverno fosse invece particolarmente depresso, nonostante la buona idraulicità nella stagione invernale. A differenza dal recente passato, l’idroelettrico rende più d’inverno che d’estate, e il mercato si adegua. Altro interessante elemento di complementarità è quello fra profilo stagionale della produzione fotovoltaica ed eolica: in Italia negli ultimi dodici mesi il contributo mensile aggregato è stato stabilmente fra due e tre terawattora, garantendo la copertura di una quota relativamente costante del fabbisogno, nonostante la pronunciata stagionalità delle singole fonti.
Rinnovabili e mercato del gas
Dal 2008 a oggi, il contributo delle fonti rinnovabili innovative (fotovoltaico, eolico e biomasse) è passato da 11 a circa 45 TWh di produzione lorda. Queste fonti hanno spiazzato la produzione a gas: circa 6 miliardi di metri cubi di minori importazioni.
Se l’impatto diretto delle rinnovabili sul mercato elettrico è ormai evidente, quello sul mercato del gas è meno noto. Fra 2008 e 2012 il fabbisogno gas è sceso di oltre 10 miliardi di metri cubi: di questi, quasi 9 sono dovuti al minor fabbisogno termoelettrico, a sua volta tagliato per due terzi dalle rinnovabili e per un terzo da calo della domanda e maggiore produzione a carbone (al netto del minor uso di olio combustibile). In altre parole, le rinnovabili elettriche sono il principale fattore dietro il drastico riequilibrio fra domanda e offerta che ha portato anche in Italia al decoupling fra prezzo di gas e petrolio, e a quotazioni spot addirittura a sconto rispetto agli hub continentali.
La conseguenza? Prezzi dell’elettricità più bassi in tutte le fasce orarie, non solo quelle irradiate dal sole, e gas più economico anche per forniture residenziali e industriali.
Ora, quanto dei dieci miliardi e mezzo di incentivi torna ai consumatori come minor costo delle commodity? Sarebbe ora che qualcuno in Via Molise questa analisi la facesse, sul serio. La Strategia Energetica Nazionale stima ancora il peak shaving del fotovoltaico a 400 milioni di euro: sono numeri del 2011, quando solo una minima parte della produzione fotovoltaica reale pesò sui prezzi di mercato.
Per un’idea delle vere grandezze in gioco, guardiamo il margine industriale lordo di Enel nella generazione: nel 2009, annus horribilis, era di 3 miliardi di euro; nel 2012 ne sono rimasti solo 1,3. Enel, con il 26% del mercato, ha perso da sola 1,7 miliardi di margine. Edison è passata da 1,2 miliardi a 600 milioni, e così via. Non dipenderà solo dal fotovoltaico, ma altro che 400 milioni.
Le criticità
Lo sviluppo delle rinnovabili è stato tumultuoso: le criticità emerse sono numerose. Qui ci limitiamo a quelle che, se non gestite, rischiano di destabilizzare il sistema nel suo complesso. Sul piano tecnico, la maggior sfida è l’erosione del margine di riserva primaria che affligge il sistema al crescere delle fonti non programmabili. La riserva primaria è il margine di potenza incrementale che gli impianti programmabili in funzione sono obbligati da Terna a mantenere in ogni momento, per far fronte a eventuali perturbazioni sulla rete. Più impianti convenzionali sono spiazzati, minori i margini di sicurezza, e il trend attuale è insostenibile. Sul piano economico, le maggiori criticità riguardano invece la remunerazione degli impianti convenzionali e l’effetto distorsivo degli incentivi in bolletta.
Le rinnovabili intermittenti rimpiazzano energia, non capacità. Con un mercato elettrico dominato da impianti convenzionali, in condizioni normali il prezzo di equilibrio remunerava sia l’energia che la capacità. Oggi non è più così: sulla formazione del prezzo pesa in misura determinante un volume crescente di energia prodotta da fonti intermittenti, la cui potenza non può essere considerata capacità ai fini dell’adeguatezza del sistema. Se oggi l’overcapacity nella generazione convenzionale rende questo un non-problema, nel medio termine si pone l’esigenza di remunerare la capacità convenzionale necessaria a coprire i picchi di carico residuo (peraltro sempre più rari per il menzionato gioco di squadra fra fonti rinnovabili). E poi ci sono gli incentivi in bolletta. Dieci miliardi e mezzo sono un’enormità, pari a una carbon tax di oltre 20 euro per tonnellata di CO2 emessa in Italia. Che pesa però solo sulle utenze elettriche, in particolare piccole e medie imprese, mentre i benefici sono diffusi. È uno stato di cose insostenibile, oltre che iniquo.
Un sistema anche per le rinnovabili
Di fronte a queste sfide non bastano ritocchi al sistema, occorre un ridisegno articolato su almeno sei aree di intervento:
• Terzietà dell’infrastruttura. Quando quindici anni fa si liberalizzò il sistema elettrico, il primo passo fu l’indipendenza della rete di trasmissione. Oggi la concorrenza è fra generazione distribuita e generazione centralizzata, fra fonti convenzionali e intermittenti: porre il tema della terzietà di reti di distribuzione e capacità di accumulo esistente (ovvero impianti idroelettrici a pompaggio) non è provocatorio, è ovvio;
• Accumuli. Sono una necessità, non un lusso: senza batterie a fornire riserva primaria, il sistema diventa ostaggio di una quota significativa di fabbisogno da fornire con impianti convenzionali. Le limitazioni sempre più frequenti che Terna impone alle bande di import, riducendo così l’apporto di una fonte a basso costo, sono prova evidente delle diseconomie che ciò comporta;
• Sistemi di distribuzione chiusi. Con penetrazioni crescenti di generazione distribuita non programmabile, la decentralizzazione del dispacciamento (ossia la responsabilizzazione delle utenze rispetto alla gestione del profilo di prelievo/immissione in rete) diventa un fattore cruciale di flessibilità ed efficienza del sistema. Se i distributori soffrono vincoli finanziari (e conflitti d’interesse) dei gruppi di appartenenza, le smart grid possono e devono nascere dal basso, attraverso la condivisione fra utenze di impianti di generazione e sistemi di accumulo. Ma perché ciò accada è necessario che lo sfavore regolatorio per i sistemi di distribuzione chiusi sia superato;
• Servizi di dispacciamento. L’intento dichiarato dell’Autorità è quello di far partecipare le fonti rinnovabili ai costi di dispacciamento che esse contribuiscono a creare. In prospettiva, l’obiettivo dovrebbe essere invece di favorire la partecipazione attiva delle rinnovabili al mercato dei servizi di dispacciamento, non semplicemente alla copertura dei costi;
• Capacity payment. Ove un numero consistente di impianti convenzionali fosse messo a riposo, e i prezzi continuassero a non essere remunerativi per quelli residui, parlare di capacity payment sarebbe inevitabile. In verità ci si sta già lavorando, e forse è prematuro. In ogni caso, è necessario che il dispositivo sia neutrale rispetto alla soluzione tecnologica, e quindi accessibile a parità di prestazioni anche a generazione distribuita e sistemi di accumulo;
• Carbon tax. Il graduale trasferimento dell’onere di incentivazione dalle bollette alla fiscalità generale è un tema difficile ma ineludibile. L’ipertrofia della porzione amministrata della bolletta elettrica, oltre a essere insostenibile per alcune categorie di clienti, disincentiva una maggiore penetrazione del vettore elettrico in utilizzi (come il riscaldamento con pompe di calore) che migliorerebbero l’efficienza aggregata del sistema. Una carbon tax che riallocasse l’onere di incentivazione dalle bollette elettriche agli usi di combustibile, proporzionalmente al contenuto di CO2, rimuoverebbe le distorsioni e internalizzerebbe nel sistema dei prezzi le diseconomie ambientali dei combustibili fossili.
Indietro non si torna
L’esplosione delle rinnovabili elettriche ha imposto un cambio di paradigma ai mercati dell’elettricità e del gas, dimostrando che un’alternativa esiste. Il prezzo è stato una colossale distorsione delle dinamiche competitive e il proliferare di operazioni speculative, effetto di oltre dieci miliardi di euro l’anno di incentivi.
La domanda è ovvia: non si poteva fare meglio? In un mondo ideale sì, e a una frazione del costo. Ma la realtà è diversa: gli interessi colpiti dallo sviluppo su larga scala delle fonti rinnovabili, soprattutto in un contesto recessivo, sono enormi. L’ETS doveva essere la risposta razionale alle diseconomie ambientali dei combustibili fossili: ebbene, i gruppi di pressione hanno ottenuto allocazioni a buon mercato di diritti di emissione al di là di ogni logica. Il naufragio è sotto gli occhi di tutti.
Con un pizzico di cinismo, vien da dire che il cambio di paradigma potesse avvenire solo “per sbaglio”. Così è stato: ora c’è da rimettere ordine, ma indietro non si torna.
Nessun commento:
Posta un commento