L'energia in Italia tra incertezza e dirigismo
(Fonte:QualEnergia.it-Carlo Stagnaro)
Qualenergia.it ha chiesto a diversi esperti del settore energetico, dell’ambientalismo, dell’informazione specializzata, di commentare l’attuale intricata situazione politica post-elezioni, di spiegare le sue possibili implicazioni sul terreno energetico-ambientale e di indicare i propri auspici in questo ambito per il nostro paese. Qui riportiamo il parere di Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento studi e ricerche dell'Istituto Bruno Leoni.
L'incertezza politica che si è venuta a determinare dopo le elezioni non è priva di conseguenze sul settore energetico. Anzi: è destinata a prolungare e aggravare la crisi profonda che interessa tanto il comparto elettrico quanto quello della raffinazione, e a mantenere a "bagnomaria" il mercato del gas. Andiamo con ordine.
Per quanto riguarda la raffinazione, la politica ha finora ignorato le difficoltà in cui l'industria si dibatte, ritenendola una florida gallina dalle uova d'oro a cui ricorrere nei momenti di difficoltà. In realtà, il calo dei consumi di prodotti petroliferi è la caratteristica strutturale di una società matura, e non a caso è un fenomeno di dimensione europea. Aggravato, nel nostro paese, dai continui e dissennati aumenti delle accise, che ci hanno portato ai primi posti in Europa per l'esosità del fisco alla pompa, senza peraltro essere in posizione ugualmente alta se si guarda al reddito pro capite.
Il risultato è una contrazione della domanda senza precedenti. Risultato: la capacità di raffinazione, che già si era dimezzata nell'arco degli anni Ottanta, è oggi sfruttata a un tasso di carico di poco superiore alla metà. Diversi impianti hanno ridotto le linee di produzioni o hanno chiuso, e altri li seguiranno. Per varie ragioni, l'Italia si trova, almeno in teoria, nella condizione di limitare i danni se saprà sfruttare i suoi vantaggi competitivi e farsi polo di raffinazione a livello comunitario. Ma questo presuppone anzitutto una presa d'atto della situazione in cui versa l'industria: il nuovo Parlamento avrà la lucidità per farlo? O, in caso contrario, avrà la freddezza di decidere in modo consapevole che la crisi della raffinazione non è un problema del paese? Entrambe le strade sono legittime. Andrebbe però evitato il sentiero percorso finora, di negare ostinatamente le difficoltà salvo poi strabuzzare gli occhi di fronte a licenziamenti e cassa integrazione.
Una situazione di analoga difficoltà è quella del settore elettrico. Da un lato, il calo della domanda e l'aumento della produzione "verde" hanno compresso volumi e margini per i produttori tradizionali, che oggi si trovano stretti tra l'incudine e il martello e, per far tornare i conti, devono ridimensionare il parco di generazione. Dall'altro, i rinnovabilisti, che nel passato hanno goduto di sussidi ultra generosi, hanno adesso davanti a sé remunerazioni assai meno pingui (e il conseguente rischio di creare ulteriore disoccupazione, visto che la maggior parte degli addetti sono nell'installazione degli impianti, non nel loro esercizio). Se l'offerta piange, la domanda non ride, essendo gravata dal peso dei sussidi (che si stima arriverà a regime nell'ordine dei 12 miliardi di euro all'anno) e dai costi di rete riconducibili alla generazione intermittente.
Oggi si discute su una serie di correttivi da introdurre per tener conto di queste evoluzioni, a partire da un meccanismo di remunerazione della capacità non utilizzata e dell'obbligo per i produttori intermittenti di pagare i costi derivanti dagli sbilanciamenti da loro stessi prodotti. A seconda di come vengono disegnate, queste misure possono essere più o meno coerenti tra di loro e più o meno coerenti col disegno di un mercato concorrenziale. E' urgente, sul tema, una seria riflessione politica.
Così come è urgente una riflessione ugualmente seria sull'opportunità di mantenere prezzi di riferimento sia elettrici sia del gas e, attraverso di essi, continuare a ingessare una parte della domanda a più di un decennio dalla liberalizzazione. Peraltro, la ridefinizione dei prezzi di riferimento del gas da parte dell'Autorità sta destando clamore per le sue potenziali conseguenze distorsive. Ma, più in generale, è lo stesso mercato del gas che deve essere ripensato, stretto com'è tra l'incudine (dirigista) dell'Autorità lato prezzi e quella (ugualmente dirigista) della Strategia Energetica Nazionale, con la sua pretesa di dettare, sussidi alla mano, quali e quante infrastrutture vadano realizzate.
Insomma: tutti i settori energetici vivono oggi una forte tensione tra una liberalizzazione che è decollata solo in parte, una serie di costi indotti da politiche sbagliate e i ritorni di fiamma della pianificazione politica e burocratica. Tensione che risulta amplificata da due questioni irrisolte, o accantonate ipocritamente fino a ora. Una è relativa alla presenza pubblica nel mercato: ha ancora senso che lo Stato partecipi al gioco del mercato attraverso imprese (peraltro in posizione dominante) da esso stesso controllate? Secondo: se l'energia è - come tutti dicono - un settore "strategico", e se è - come è - un settore in crisi, perché deve essere ancora fiscalmente maltrattata? Sugli operatori energetici grava infatti un'addizionale Ires di 10,5 punti (la famigerata Robin Hood Tax) che appesantisce gli investimenti e rende rugginosa la competizione.
In sostanza, i mercati energetici, pur in modo diverso e con problemi differenti, hanno mostrato in questi anni vitalità e spirito di cambiamento. Ma hanno bisogno, oggi più che mai, che vengano compiute scelte chiare e che venga definito un quadro di riferimento chiaro. Poiché una serie di nodi stanno venendo al pettine contemporaneamente, è essenziale che la politica sappia esprimere degli interlocutori. Altrimenti, anche da questo settore arriveranno grattacapi tali da far apparire quelli degli anni scorsi come la piccola punta di un grande iceberg.
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